2-06-2021 – La “Stella Rossa”. Prima Resistenza tra Savona e Val Bormida. Video-narrazione delle studentesse dell’I.S.S. “Patetta” (Cairo M.)

La “Stella Rossa”. Prima Resistenza tra Savona e Val Bormida.

Una video-narrazione delle studentesse dell’I.S.S. “Patetta” di Cairo M.

Le studentesse della 4ª A – AFM dell’Istituto Secondario Superiore “Federico Patetta” di Cairo Montenotte raccontano il legame tra l’antifascismo degli anni ’30 e la nascita dei primi gruppi partigiani in Val Bormida.


Il distaccamento della “Stella Rossa” a Santa Giulia e Gottasecca 


<strong>Prima antifascisti poi partigiani: la Resistenza non nasce dal nulla</strong>…

Gli eventi storici sfuggono alle semplici catalogazioni o classificazioni; eppure, sembra che di queste la narrazione storica non possa fare a meno. 

Gli eventi sono raccontati per grandi nomi: la Prima guerra mondiale, la Seconda guerra mondiale, la Resistenza. Catalogare, classificare: infonde, sia in chi legge sia in chi scrive, un senso di sicurezza, di tranquillità. Ci sembra di avere capito, e anche bene, come si sono svolte le vicende, ci sembra di ritrovarci un senso, chiaro e ragionevole. 

E poi ci sono gli uomini: quelli che gli eventi storici, gli stessi che noi tanto facilmente cataloghiamo, li hanno vissuti. E li hanno vissuti con i loro ideali, le loro contraddizioni, con la paura e il coraggio, da esseri umani. Il racconto della realtà, però, è sempre tremendamente lontano dalla realtà: è semplice e scontato per noi, uomini “del dopo” – quelli che la storia la leggono -, schierarci, parteggiare. ci pare immediato condannare o elogiare. Facile perché abbiamo la prospettiva storica: sappiamo già come andrà a finire. È questa la distanza incolmabile. Una distanza che si aggrava per il fatto che, a stento, noi, oggi, sappiamo cosa sia un’ideologia, immersi in un mondo liquido che le ha inghiottite, le ideologie, riducendole a nulla. Difficilmente siamo mai stati posti di fronte a scelte drastiche, tali da mettere in pericolo la nostra stessa vita: non sappiamo cosa significhi e non ci è quasi impossibile immaginarlo. 

Non è stato così per chi è nato all’inizio del secolo scorso: il Biennio rosso, la marcia Roma, il Ventennio e poi la guerra. Un secolo dominato dal costante contrapporsi di ideologie. Scegliere era doveroso, non ci si poteva quasi sottrarre. E scegliere, schierarsi comportava sempre delle conseguenze e, spesso, un prezzo molto alto da pagare.  Durante il Ventennio fascista in tanti scelsero la via più comoda quella del quieto vivere: il fascismo dilagava ed era semplicemente più semplice acconsentire, farne parte al di là anche di ferme convinzioni politiche. Altri si contrapposero al fascismo e alla sua soffocante oppressione che, celata da apparenze gloriose e retoriche, cancellava ogni residuo di libertà. Opporsi al regime significava botte, arresti, interrogatori e torture, il carcere e spesso la morte. Eppure, ci sono persone che non hanno lasciato spazio alla paura e, in nome di un’ideologia, non hanno ceduto alle lusinghe del quieto vivere, hanno conosciuto il carcere, hanno visto le loro vite distrutte, perdendo il lavoro e sovente anche gli affetti. 

Esse antifascisti negli anni Trenta voleva dire anche questo. Durante il periodo di massima espansione del fascismo, gli oppositori trascinavano le loro esistenze sotto la stretta sorveglianza della polizia e sempre a rischio finire in carcere ad ogni delazione.  La distanza fra noi e loro è siderale: per quanto possiamo sforzarci, non possiamo immaginare e, forse, nemmeno capire.  Eppure, tennero viva quell’idea e in ogni modo possibile cercarono di preparare le nuove generazioni alla ribellione che nasce nel settembre del 1943. Una ribellione che prende il nome di Resistenza: con italiani contro italiani, lacerati in una sanguinosa guerra civile, con le stragi di civili per mano dei nazifascisti, con le deportazioni di lavoratori nei campi di concentramento; infine, con la Liberazione. 

Ma la Resistenza non nasce dal nulla: sono uomini quelli che l’hanno preparata, uomini che strenuamente l’hanno coltivata nutrendola con le loro idee, con un amore incredibile, con strepitosa dedizione.  

Angelo Bevilacqua, Armando Botta, Ugo Pierino sono in questo senso storie esemplari, storie di amore e libertà.


Antifascista condannato dal Tribunale Speciale e partigiano dal settembre 1943

<strong><strong>Pierino UGO: la sua stori</strong></strong>a

Pierino Ugo nasce a Strevi il 13 febbraio 1907, da Luigi e Bruno Angela. Giunge a Savona nel 1926 e trova lavoro come operaio all’“Officina Arfinetti Lazzaro”, quindi presso le “Officine Meccaniche” di Vado Ligure. Il 20 marzo 1934, durante un’operazione di polizia anticomunista, nel suo armadietto di lavoro vengono trovate dieci copie del giornale l’Unità e altre stampe di carattere sovversivo. È fermato e condotto in questura. 

Il rapporto informativo di polizia, basato quasi esclusivamente su delazione da parte di confidenti, descrive Ugo come un individuo di limitata cultura e di carattere mite, che soffre di cuore e di eccessi di epilessia. Nel rapporto si dice che sia semi deficiente e appassionato di musica (“suona il mandolino e legge molto sull’ipnosi”). Il documento conclude riportando che Pierino: “è dedito all’alcool e quando si trova un po’ alticcio diventa spinto”. L’italiano incerto e ricco di errori ortografici degli agenti di polizia disegna il reietto, il disadattato sociale ovviamente ostile al regime, e quindi pericoloso. Nel 1934 Ugo ha 27 anni e vive a Savona con la madre, il fratello Alfredo e la sorella Clementina al 17 di via XX Settembre. 

Il 20 marzo, alle 22, è nelle carceri di Savona a disposizione delle forze di sicurezza. Le indagini successive portano a formulare contro di lui l’accusa di essere al comando della cellula del Partito comunista nello stabilimento in cui lavora, di partecipare ad associazione comunista e di fare propaganda sovversiva. Sono accuse quanto meno stridenti con la descrizione fatta di Ugo nel rapporto successivo al fermo.  

Il 22 marzo 1935 il Tribunale speciale condanna Pierino Ugo a quattro anni di reclusione (due dei quali condonati). Egli sconta la pena prima a Roma e poi, dal maggio del 1935 all’aprile del 1936, a Fossano. Tornato in libertà, trova impiego come operaio presso la ditta Solimano, operante nel porto di Savona. La libertà che ritrova, però, non è piena: è seguito con dovizia dalla questura con aggiornamenti continui sul suo stato, anche se in questo periodo non sembra svolgere alcuna attività politica di rilievo. 

I rapporti della questura sulla vita di Ugo continuano sino al marzo del 1943. Il 19 settembre, alle ore otto, la sua abitazione di via De Stefanis, a Savona, in cui si è trasferito dopo il matrimonio, viene perquisita. Gli agenti cercano armi, munizioni e materiale sovversivo. La perquisizione avviene in presenza della moglie di Ugo, perché lui non c’è. Ha già preso la via dei monti: si trova a Santa Giulia di Dego, accampato con alcuni compagni presso un castello abbandonato. A questo gruppo si uniranno presto altri antifascisti e anche due militari britannici fuggiti dal campo di concentramento di Cairo Montenotte. Il gruppo, verso la metà di ottobre, si trasferisce a Gottasecca, nella cascina Ritano, e prende il nome di Stella Rossa per la prevalenza di comunisti tra le sue fila. Nel corso dei 2 mesi successivi cresce di numero ed ha come comandante il portuale savonese Mario Tamagnone. All’inizio di dicembre, per timore di un imminente rastrellamento, la Stella Rossa decide di abbandonare il campo di Gottasecca: alcuni partigiani rientrano a Savona e altri, tra cui Ugo, si allontanano verso Bormida, dove sanno dell’esistenza di un’altra banda. I partigiani di Bormida sono poco più di una decina e sono stanziati in una cascina, detta “Bergamotti”, a circa mezz’ora dal paese. La cascina “Bergamut” è un luogo sicuro e bene nascosto. Il gruppo può anche contare per il sostentamento sui contadini del luogo. Gli ultimi giorni dell’anno passano in relativa tranquillità. Ma, all’alba del due gennaio 1944, una colonna di tedeschi avanza sul sentiero che porta alla cascina; è guidata dal capo manipolo fascista Mario Bazzani. Il gruppo di Bormida è attaccato con mitragliatrici e bombe e, solo dopo aver sparato numerosi colpi, riesce a sottrarsi all’attacco nazista. Non tutti scampano al pericolo: Pierino Ugo, Renzo Guazzotti, Nino Bori e Salvatore Cane restano a terra. Non è possibile sapere se sono morti, o solo feriti. Ma i tedeschi afferrano brutalmente i loro corpi e li buttano all’interno della cascina. Poi appiccano il fuoco e fanno esplodere una carica di dinamite: cascina Bergamut brucia e crolla. 

I corpi dei quattro partigiani verranno recuperati solo alcuni giorni dopo: carbonizzati, irriconoscibili. 

Riferimenti:

Guido Malandra, I volontari della libertà della II zona partigiana ligure (Savona), Prima soc. coop. a.r.l., Genova 2005, p.122, p. 592 e p. 639;  

vedi anche Guido Malandra, Il distaccamento partigiano della Stella rossa, Prima soc. coop. a.r.l., Genova 2006, p. 43.