I LIBRI DELL’ISREC DI SAVONA – Presentazione on line del volume di Irene GUERRINI e Marco PLUVIANO “Savona, 1º marzo 1944: lo sciopero” (Venerdì 5 marzo 2021, h. 16-17.30) con Edmondo MONTALI (Fondazione Di Vittorio). È disponibile la video registrazione dell’incontro.

I libri dell’ISREC di Savona

Evento organizzato dall’ISREC con il patrocinio del Consiglio regionale Assemblea legislativa della Liguria e in collaborazione con ILSREC, USR per la Liguria, ANED di Savona e Imperia, CGIL, CISL e UIL

VENERDÍ 5 MARZO 2021, ORE 16.00 – 17.30

Presentazione on line del volume di

Irene GUERRINI e Marco PLUVIANO

Savona, 1°marzo 1944: lo sciopero.

“Inutili sono stati tutti i passi fatti, inutile ogni ricerca”.

Operai e città tra resistenza, repressione, esigenze dell’economia di guerra nazionalsocialista

(Editrice Impressioni Grafiche, Acqui Terme 2021)

Clicca qui per scaricare la locandina-invito

Introduce  

Franca Teresa Ferrando, Presidente dell’ISREC della provincia di Savona

Saluti 

  • Armando SANNA, Vice Presidente del Consiglio regionale Assemblea legislativa della Liguria
  • Alessandro Clavarino, Direttore dell’Ufficio III – USR per la Liguria
  • Andrea Pasa (CGIL), Claudio Bosio (CISL) e Giovanni Mazziotta (UIL), Segretari Generali Territoriali

La narrazione storica dello sciopero del 1° marzo 1944 a Savona

Conversazione con

  • Irene GUERRINI e Marco PLUVIANO (autori del volume e componenti del Comitato scientifico dell’ILSREC)
  • Edmondo MONTALI (responsabile della Sezione Storia della Fondazione Di Vittorio)

Coordina Giosiana CARRARA, Direttore dell’ISREC di Savona


SINOSSI

Operai in sciopero alla Breda di Sesto San Giovanni nel 1944 [Pubblico dominio, wikimedia.org]

Leggi <strong>qui</strong> la sinossi del volume “<strong><em>Savona, 1°marzo 1944: lo sciopero”</em></strong>

Il volume, promosso dall’ISREC, affronta il tema dello sciopero del 1° marzo 1944 a Savona e provincia inquadrandolo nel clima di conflitto politico e sociale indotto dalle privazioni causate dalla guerra (inflazione, mancanza dei generi essenziali, distruzione di abitazioni e luoghi di lavoro) e dalla pratica di repressione operata dal regime monarchico fascista fino all’8 settembre e, in seguito, dall’occupante tedesco e dalle autorità della RSI. Come nel resto d’Europa, anche nell’Italia occupata i nazifascisti si dedicarono a una capillare razzia di uomini, macchinari e materiali, destinati all’economia di guerra del Reich. A seguito dello sciopero del 1° marzo fu trasferito a forza nel Reich un numero di scioperanti stimabile tra le 160 e le 170 unità; 67 di essi furono inviati nel circuito concentrazionario di Mauthausen e dei suoi sottocampi (solo otto di essi sopravvissero), mentre gli altri furono destinati al lavoro coatto.


GLI AUTORI

Vado Ligure (via Gramsci) nei primi anni ’50. Corteo del 1° maggio. Il tabellone riporta 6 foto di martiri locali con dedica: “Nel loro esempio i lavoratori continuano uniti la lotta per un migliore avvenire” [Archivio fotografico CGIL Savona – n. 416]

Leggi <strong>qui</strong> la nota biografica

Irene Guerrini e Marco Pluviano, componenti del Comitato scientifico dell’Istituto ligure per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea (ILSREC), hanno svolto numerose ricerche sulla Grande guerra per i profili della giustizia militare, del mito dell’aviatore e dell’organizzazione del consenso. Per il periodo fascista e della Repubblica sociale italiana hanno studiato l’Opera nazionale dopolavoro, la deportazione politica, i rastrellamenti antipartigiani e il lavoro coatto nel Reich.


La narrazione storica dello sciopero del 1° marzo 1944 a Savona

Vado Ligure (SV) nei primi anni ’50. Corteo degli operai della SAMR
per la Festa dei lavoratori [Archivio fotografico CGIL Savona – n. 2725]

<strong><strong>Marco Pluviano</strong>: Inquadramento della realtà del movimento operaio in Liguria nel triennio 1940-1943 e nel biennio 1943-1945</strong>.

G. CARRARA

Mi rivolgo a Marco Pluviano per inquadrare la realtà del movimento operaio in Liguria, tenendo eventualmente conto della periodizzazione 1940-’43 e 1943-45.  Ma gli chiedo anche se ritiene che sia una suddivisione “periodizzante”.  Detto in altri termini, il triennio 1940-’43 e il biennio 1943-’45 possono essere ritenuti funzionali oltre che alle vicende belliche anche al grado di intensità dei conflitti sociali e di fabbrica? 

Marco PLUVIANO:

La suddivisione temporale che proponi è quanto mai opportuna, anche se questa cesura non coincise precisamente con la caduta del regime monarchico-fascista avvenuta il 25 luglio 1943.

Il momento di svolta, anche in Liguria, può infatti essere fatto risalire al marzo dello stesso anno, anche se gli scioperi furono, in quel mese, assai meno rilevanti nella nostra regione che nel resto del cosiddetto “triangolo industriale”, limitandosi nei fatti alla Manifattura Tabacchi di Genova Sestri Ponente, con una mano d’opera molto specializzata e in larga maggioranza femminile, e alla Brown Boveri di Vado Ligure. Comunque, quella data segnò l’emersione aperta e collettiva della contestazione operaia che non si limitò più, come avvenuto nei precedenti (e minori) episodi di scontro sociale, a porsi al di fuori del Regime, ma fu esplicitamente contraria ad esso. E questo fu tanto più significativo dal momento che il Regime fascista pretendeva di identificare sé stesso, e il Partito che lo esprimeva, con lo Stato e tutto il popolo. E fu tanto più grave dato che seguì di pochissime settimane la catastrofe militare che aveva messo termine alla sventurata campagna di Russia, e fu contemporanea all’epilogo, meno sanguinoso ma ancor più disastroso dal punto di vista strategico, della campagna in Nord Africa con l’apertura, di lì a poche settimane, della via per lo sbarco Alleato in Sicilia.

Purtroppo, ad oggi la nostra ricerca ci ha fornito informazioni principalmente sul capoluogo regionale. Nei mesi seguenti marzo 1943 il malessere operaio crebbe, e infatti a giugno il Questore di Genova informò il Prefetto che la situazione tra gli operai era assai delicata dal punto di vista dell’ordine pubblico. Gli operai genovesi, quindi, non aspettarono il 25 luglio per esprimere la propria disaffezione verso il regime, in questo seguiti, come registrarono nello stesso mese i Carabinieri, da tutti ì settori sociali cittadini.

Prima di marzo 1943 il movimento operaio genovese, come quello degli altri centri liguri, agiva nella più totale clandestinità, con un numero ridotto di cellule comuniste nelle fabbriche e nei quartieri proletari, e una presenza di vecchi militanti socialisti che, sebbene poco e male organizzati, mantenevano in diverse situazioni prestigio e audience tra i lavoratori. A Savona, ancor più che a Genova, era forte la tradizione comunista. Nella città di La Spezia la situazione era più complessa, con presenze di anarchici, repubblicani, e socialisti.

Questa clandestinità non aveva però comportato l’acquiescenza del mondo operaio ligure, anche perché la situazione sociale era tutt’altro che serena. Se, infatti, l’occupazione nella grande industria legata alla produzione bellica era in forte crescita in tutta la regione e in agricoltura si registrava una costante carenza di forza lavoro, altri settori produttivi entrarono in gravissima crisi in tutta la regione già nell’autunno 1939: turismo, navigazione, portualità nel suo complesso (dal lavoro sulle banchine agli spedizionieri e, per Savona, alle attività legate al trattamento del carbone), persino la pesca. L’edilizia per le grandi opere li seguì a inizio 1941. E ne diede testimonianza la massiccia adesioni di lavoratori di questi settori, in tutta la regione, alle campagne di reclutamento di lavoratori per la Germania, ma anche per il nord Africa e l’Albania, che dal 1939 ebbero ripetutamente luogo fino all’inizio del 1943. Queste criticità generarono malcontento e conflittualità che, seppur prive di dichiarate connotazioni antifasciste, allarmarono molto il Regime e gli organi securitari dello Stato. Già a novembre 1939 il Questore di Genova ordinò l’attenta vigilanza nei quartieri operai per il timore di ripercussioni in tema d’ordine pubblico per le chiusure di attività industriali a causa della mancanza di materie prime conseguenti alla guerra. Un anno dopo, a dicembre 1940, la Confederazione Fascista Lavoratori dell’Industria (CFLI) fu costretta a constatare la presenza di consistenti sentimenti disfattisti favorevoli alle correnti antifasciste nel mondo operaio, mettendo in guardia contro atteggiamenti arroganti e la persistenza di favoritismi da parte di uomini e organi del fascismo, che potevano creare “reazioni spirituali preoccupanti” tra gli operai.

A luglio 1942, si dovette estendere la vigilanza agli Uffici di Collocamento per il crescente afflusso di disoccupati. Ma tutta questa opera di controllo, che fu messa in atto per ogni minima criticità, non impedì che nell’ottobre 1941, ai due capi della città (Nervi e Cornigliano), scoppiassero disordini nei mercati comunali, scatenati da donne che protestavano per la mancanza di generi alimentari. Le autorità operarono arresti e fermi, sospettando la presenza e l’azione di sobillatrici. Ma pochi mesi dopo, nel marzo 1942, disordini simili scoppiarono tra le donne in coda al mercato a Ravecca, zona del centro storico abitata dalle famiglie di operai della cantieristica e di portuali.

A tutto ciò si deve poi aggiungere la diffusione in tutta la regione e nelle principali fabbriche di volantini contro la guerra, contro l’alleanza con la Germania nazista, e a favore dell’URSS e dell’Armata Rossa, manoscritti e a volte dattiloscritti, o addirittura ciclostilati. Oltre ai volantini, apparvero graffiti e scritte nei bagni e negli spogliatoi. Gli insulti e le invettive contro Mussolini e Hitler si accompagnarono agli appelli alla solidarietà internazionalista con l’Unione Sovietica, ma anche con tutti gli antifascisti. E apparvero anche le prime denunce sul peggioramento delle condizioni di vita della classe operaia a causa della guerra. Il tutto ispirò alle Questure e Prefetture il timore per la presenza di una rete antifascista in fabbrica, e di una più generale e diffusa solidarietà verso gli antifascisti attivi, che infatti difficilmente vengono individuati.

Ma la tensione tra gli operai non era patrimonio della sola Genova. A Savona e nel suo hinterland, complice anche una radicata tradizione comunista che aveva portato alla costituzione di cellule antifasciste di fabbrica negli anni Trenta, non mancarono le scritte e la diffusione di volantini nelle fabbriche e sui muri cittadini, lo sfregio di manifesti e simboli fascisti nei quartieri. Ad esempio, alla Brown Boveri e alla SAMR il giornale “Soccorso rosso” era diffuso ben prima del luglio 1943. Più in generale, Questore e Prefetto individuarono sentimenti di freddezza e anche di avversione verso il Regime diffusi nei luoghi di lavoro. Alla Piaggio di Finale il 6 giugno 1943 un centinaio di apprendisti e giovani operai effettuarono uno sciopero.

Ma anche le donne diedero per tempo luogo a fenomeni abbastanza clamorosi di protesta. Ad esempio, tra ottobre e dicembre 1941 vi furono almeno due episodi nei quali le massaie, a Leca di Albenga e a Finalmarina, costrinsero i conducenti dei carri che raccoglievano il latte a fermarsi e a consegnare loro questo alimento che altrimenti non avrebbero potuto ottenere.

Anche a La Spezia l’allarme per l’insofferenza della massa operaia è ben presente, nonostante il fortissimo legame tra tessuto industriale e Regia Marina. Un’insofferenza di lunga data, che ad esempio aveva comportato un afflusso di operai e contadini spezzini nelle Brigate Internazionali durante la Guerra di Spagna.

In questo modo si giunse al 25 luglio e all’immediata esplosione antifascista che divampò in tutta la regione. Grandi cortei e manifestazioni partirono spesso dalle fabbriche, e a Savona e a La Spezia comportarono il ferimento e l’uccisione di manifestanti, mentre le sedi e i simboli del regime vennero distrutti. E insieme a loro si squagliò anche il sindacato fascista, mentre vi fu la contestuale ed immediata rinascita del sindacato di classe, con l’elezione di libere Commissioni di fabbrica e la richiesta di eleggere i Consigli direttivi delle Casse mutua, e di allontanare subito dirigenti e dipendenti particolarmente compromessi con il regime. In Liguria l’impostazione “sindacale”, più concreta e moderata ma anche più nettamente classista, non caratterizzò solamente il sindacato ma anche i partiti antifascisti, soprattutto il PCI, che adottarono in tutta la regione un atteggiamento più di confronto che di rottura, cercando la legittimazione da parte delle autorità badogliane per sé stessi e per le istituzioni di classe (soprattutto le Commissioni di fabbrica). Al momento della crisi dell’8 settembre tutto ciò portò, nel trimestre seguente, ad impostare una politica legata largamente a un durissimo, e anche sanguinoso, confronto/scontro sociale tradizionale, piuttosto che allo scontro politico/militare. Questo costituirà, da un lato, una delle cause della grande adesione agli scioperi di novembre e dicembre 1943, dei loro risultati complessivamente favorevoli e del conseguente radicamento del PCI in fabbrica e nei quartieri, ma, dall’altro lato, condurrà anche all’estromissione piuttosto rapida del vecchio gruppo dirigente comunista capeggiato da Delle Piane e Miroglio quando fascisti e nazisti, di fronte alle dimensioni assunte dalle lotte, porteranno lo scontro sul livello della più feroce repressione, nei cui confronti occorreva un’altra impostazione.

Nel periodo post 8 settembre la situazione mutò decisamente. Alle rivendicazioni di tipo “sindacale”, legate cioè al salario, agli straordinari e ai cottimi, alle condizioni di lavoro e di vita (approvvigionamento alimentare, di combustibili, di vestiario, ecc.), si unirono quelle più propriamente politiche: rifiuto della RSI e delle nuove Commissioni interne volute dal sindacato fascista, rifiuto del lavoro in Germania, rifiuto della prosecuzione della guerra e dell’occupazione tedesca. Il fascismo e la sua guerra divennero l’origine di tutte le drammatiche criticità delle condizioni di vita della classe operaia.

L’attività politica in fabbrica crebbe e si formò una generazione di militanti che visse per oltre un anno in bilico tra lavoro politico-sindacale in fabbrica, clandestinità in ambito urbano e clandestinità nelle formazioni della Resistenza. Però, il movimento operaio e i quartieri proletari non furono più, a partire da fine 1943, l’unico ambiente nel quale l’antifascismo ligure poteva trovare spazio e radicamento, non furono più il brodo di coltura politica e l’unico luogo in cui potesse diffondersi una cultura antifascista. Il fenomeno resistenziale per esistere e sopravvivere si aprì a tutti gli ambienti sociali: intellettuali, contadini, impiegati, militari, assumendo inevitabilmente caratteristiche più interclassiste e maggiormente dislocate dal punto di vista territoriale.

<strong><strong>Irene Guerrini</strong>: Ricostruzione delle dinamiche dello sciopero del 1º marzo 1944 a Savona.</strong>

G. CARRARA

Alla dott.ssa Irene Guerrini chiedo se può ricostruire le dinamiche dello sciopero del 1º marzo 1944 a Savona.  

Irene GUERRINI:

Per meglio inquadrare le vicende savonesi, è necessaria una breve premessa sulla partecipazione nel resto della Liguria allo sciopero nazionale che coinvolse l’Alta Italia. 

Genova: lo sciopero riesce in pochi stabilimenti per il trauma seguito al fallimento degli scioperi di gennaio 1944 e per difficoltà interne alla dirigenza antifascista. 

La ripresa forte degli scioperi ci sarà a giugno e si concluderà con la grande razzia nelle fabbriche il 16 con 1.448 lavoratori inviati al lavoro nel Reich.

La Spezia: lo sciopero ha grande successo e prosegue in alcune fabbriche per tre giorni. Furono effettuati molti arresti di sindacalisti nelle abitazioni o per strada (non avvennero razzie direttamente in fabbrica); di essi, otto furono inviati al lavoro coatto in Germania.

Gli arresti e la crisi delle principali fabbriche che comportarono migliaia di licenziamenti e fecero sì che nei mesi seguenti l’attività antifascista prendesse strade diverse dallo sciopero.

Veniamo ora allo sciopero del Primo marzo a Savona

Lo sciopero del 1° marzo ha grande successo in tutta la provincia: a Savona e Vado, in Val Bormida, a Finale e in altri centri e coinvolge fabbriche grandi e piccole di tutti i settori produttivi.

E’ preceduto da una preparazione meticolosa, iniziata a gennaio da membri dei CLN locali e del PCI, supportata dagli organismi nazionali (ricordiamo la presenza a Savona del dirigente Giancarlo Pajetta nei giorni precedenti lo sciopero). I militanti riescono ad organizzare e a incanalare il fortissimo disagio sociale ed economico vissuto dai lavoratori nella provincia. L’elemento politico si incontra quindi con condizioni di vita e di lavoro che si fanno via via più intollerabili.

Le parole d’ordine sono prevalentemente di tipo politico: la fine della guerra e dell’occupazione in primis, ma ricordo che scioperare in un regime autoritario – per non parlare di farlo in tempo di guerra – è comunque sempre un atto politico, e lo è ancor più con i tedeschi in casa.

Anche se si rivendica un semplice miglioramento del cottimo, lo sciopero in queste condizioni, oltre a richiedere un immenso coraggio, supera sempre i risvolti economici.

Se i lavoratori sono preparati, lo sono anche le autorità naziste e fasciste che possono prendere per tempo contromisure adeguate. Ad esempio, fanno affluire a Savona 300 bersaglieri e preparano le squadre che dovranno intervenire nei luoghi di lavoro: agenti di pubblica sicurezza, militi della Guardia nazionale repubblicana, militari, camice nere e tedeschi

E’ uno sciopero bianco, cioè i lavoratori entrano in fabbrica e, dalle 9 o dalle 10 secondo gli impianti, smettono di lavorare e restano accanto alle macchine a braccia conserte o si riuniscono in assemblea, ma senza uscire dalla fabbrica.

Lo sciopero ha durata variabile a seconda della tempestività dell’intervento repressivo. Nei principali stabilimenti di Savona e Vado i fascisti intervengono a cavallo della mensa, mentre in alcune altre fabbriche di Savona e Vado e alla Piaggio di Finale lo sciopero dura l’intera giornata

A questa data, possiamo stimare che il numero degli operai attivi nella provincia sia intorno alle 40.000 unità ma non è possibile fornire dati certi sul numero degli scioperanti, anche per la difficoltà di contare gli aderenti a uno sciopero bianco. 

Le autorità riferirono di oltre 5.300 scioperanti divisi per fabbrica ma il loro numero è sicuramente ben più alto. Nel riepilogo delle adesioni – compilato fabbrica per fabbrica – il capo della provincia Filippo Mirabelli non cita intere realtà industriali nelle quali lo sciopero ebbe luogo: le fabbriche della Val Bormida e le vetrerie di Altare, i Cantieri Baglietto e il Cotonificio di Varazze e neppure il numero degli scioperanti alla Scuffi e alle Distillerie italiane di Savona, dove pure furono effettuati diversi arresti.

La reazione fu pronta e durissima e portò a centinaia di fermi direttamente sul luogo di lavoro, compiuti in massima parte dalle forze di sicurezza italiane, dato che i tedeschi ebbero funzioni di fiancheggiamento dove pensavano potesse verificarsi una resistenza organizzata. 

Emblematico l’episodio di Pietra Ligure laddove, secondo lo storico tedesco Lutz Klinkhammer, 1.500 lavoratori di due stabilimenti entrarono in sciopero a mezzogiorno. Alla notizia degli arresti avvenuti a Savona, però, dopo poco ripresero gradualmente il lavoro.

Altri arresti mirati di sindacalisti conosciuti furono effettuati alla spicciolata fino all’alba del tre, marzo mentre in Val Bormida e a Finale avvennero tutti fuori dalla fabbrica.

Il 3 marzo si contano circa 300 lavoratori fermati ma, prima di lasciare la parola a Marco Pluviano che vi parlerà del loro destino, voglio fare un cenno sulle fonti che abbiamo utilizzato per ricostruire le vicende descritte nel nostro volume.

Accanto alla produzione scientifica di interesse nazionale, tra cui primeggia il volume curato da Della Valle Operai fabbrica resistenza per gli Annali della Fondazione Di Vittorio e a quella che ha studiato un ambito più locale, abbiamo consultato interviste e fonti memorialistiche dei protagonisti degli eventi. 

Sono state poi fondamentali le fonti di tipo archivistico, rinvenute in massima parte nei seguenti archivi:

  • Archivio centrale dello Stato (Roma): hanno restituito materiale utile alla ricerca soprattutto i fondi del Ministero dell’Interno (in particolare quelli del Capo della polizia e della Direzione generale di pubblica sicurezza), la Segreteria personale del Duce e i fondi della GNR;
  • Archivio di Stato di Savona, utile il fondo Prefettura;
  • Archivio di Stato di Genova, il fondo delle sentenze delle Corti di Assise straordinarie contiene i processi per collaborazionismo celebrati nel dopoguerra.

Per la sorte dei lavoratori in terra tedesca è stata fondamentale la documentazione conservata dall’ANPI di Savona e dall’ANED di Savona e Imperia che voglio ringraziare per averci generosamente aperto i loro archivi. 

<strong><strong><strong>Marco Pluviano</strong>: La repressione dello sciopero savonese del 1º marzo.</strong></strong>

G. CARRARA

Lo sciopero ebbe un grande successo ma quali furono le modalità della sua repressione? Quale fu il destino dei lavoratori razziati? 

Marco PLUVIANO:

Prima di parlare della repressione dello sciopero e del destino dei razziati savonesi, vorrei inquadrarli nelle pratiche più generali di deportazione e di prelievo di manodopera per il Reich, e per farlo mi rifaccio alla ricerca sul lavoro coatto in Germania, che conduciamo da anni sotto la guida di Brunello Mantelli e con il supporto dell’ANRP (Associazione Nazionale Reduci dalla Prigionia) e della Fondazione Memoria per il Futuro.

Le modalità di invio nel Reich degli uomini e delle donne a vario titolo prelevati a forza furono di due tipi.

Da un lato, infatti, vi fu l’invio nel circuito concentrazionario gestito dalle SS, nei KL, i Konzentrationslager, da non confondere con i Campi di annientamento per i deportati razziali, i VL. I deportati razziali erano peraltro reclusi e uccisi anche nei KL.

Nei KL i deportati lavoravano in condizioni durissime, sia affittati dalle SS ad aziende grandi e piccole (molte di esse ancora oggi attive e note, tra le altre Siemens, AEG, Bayer, Volkswagen) sia direttamente per aziende facenti parte dell’impero economico di proprietà dell’Ordine delle SS. In essi erano di norma spediti gli elementi individuati come antifascisti militanti o sostenitori attivi della Resistenza, fosse essa urbana o rurale. A volte, però, anche per necessità di forza lavoro vi erano mandati dei semplici scioperanti. Oppure persone razziate, rastrellate, arrestate, ma prive di qualsiasi legame con la resistenza: persone capitate nel luogo sbagliato al momento sbagliato. I deportati in KL non venivano pagati per il lavoro prestato, ed erano sostanzialmente equiparati a dei “vuoti a perdere”: venivano mantenuti in vita, anzi al limite della vita, finché potevano essere utili, altrimenti erano lasciati morire, per malattia o per semplice sfinimento o consunzione, o uccisi. E infatti, il tasso di mortalità dei deportati non razziali italiani fu mediamente intorno al 40%, anche se quello dei liguri fu molto più alto, superiore al 60%, poiché in maggioranza andarono nel più duro dei KL, quello di Mauthausen e nei suoi sottocampi, tra i quali Melk, Ebensee, Gusen 1 e 2. Per inciso, il tasso di mortalità dei deportati razziali italiani si attestò sopra al 90%.

Vi erano poi le persone inviate al lavoro coatto, e quindi non nei KL, anche se a volte vi transitarono per un breve periodo per lo smistamento o per la quarantena, e anche se un certo numero di essi vi fu inviato per punizione per periodi più o meno lunghi, spesso trovandovi la morte. I lavoratori coatti non erano gestiti dalle SS ma dal GBA, la struttura del Plenipotenziario per la manodopera del Reich guidata da Fritz Sauckel, e questo indipendentemente da chi li avesse catturati. Le condizioni di vita e di lavoro erano molto dure ma, seppure con alcune eccezioni, di massima non paragonabili a quelle vigenti nei KL. I lavoratori coatti firmavano un contratto, ricevevano una paga, sebbene pesantemente decurtata per il mantenimento e per altre ragioni che non di rado celavano la volontà di sottrarre soldi a favore del sistema nazionalsocialista.

In linea di massima, sebbene non mancassero episodi di violenza anche estrema ai loro danni da parte delle guardie delle fabbriche, dei civili e dei lavoratori tedeschi, dei collaborazionisti (anche italiani) e di poliziotti e militari, i datori di lavoro non li consideravano “vuoti a perdere”, anche se le condizioni di alloggio, di vestiario, e di alimentazione erano appena sufficienti a mantenerli in vita. E, infatti, il loro tasso di mortalità fu molto più basso rispetto ai deportati e agli stessi IMI (ma ben superiore a quello dei loro coetanei rimasti a lavorare in Italia), anche se molti tra loro tornarono affetti da malattie che richiesero tempi lunghi per la guarigione, quando non li condussero ad una morte prematura o li tormentarono per il resto della vita.

In questo contesto dobbiamo quindi inserire la vicenda dei lavoratori savonesi e della provincia catturati in occasione dello sciopero del 1° marzo 1944. Gli arresti avvennero in maggioranza già il giorno dello sciopero, e in minor misura nei due giorni seguenti. In totale si può stimare che siano stati arrestati un po’ meno di 300 persone, quasi tutte all’interno delle fabbriche. All’ILVA di Savona e nelle fabbriche di Vado l’irruzione delle forze rastrellanti avvenne intorno a mezzogiorno. In linea di massima lo sciopero fu interrotto prima della fine della giornata lavorativa.

Ma cosa accadde agli arrestati nel savonese? Alcune decine di essi riuscirono a sfuggire, o furono comunque rilasciati per le più diverse ragioni. Gli altri furono concentrati nella Colonia Merello di Spotorno, dove restarono fino alla mattina del 3 quando, caricati su di un treno che fu fatto fermare davanti alla recinzione dell’edificio, furono portati direttamente a Genova. Qui oltre 200 uomini, poiché le donne arrestate erano state tutte rilasciate, furono stipati nella Villa Di Negro, nell’omonimo quartiere prospiciente il porto, a poche centinaia di metri dalla Lanterna. Mentre tutta l’operazione di repressione dello sciopero, di cattura e di trasporto a Genova fu condotta e gestita dalle forze della RSI, la selezione delle persone da inviare in Germania e il loro trasporto verso nord fu opera dei tedeschi. L’esito finale comportò la partenza di un contingente di circa 170 persone, delle quali 67 furono avviate al campo di concentramento di Mauthausen, e il resto fu inviato al lavoro coatto, in maggioranza nell’area di Salzigitter, in bassa Sassonia, dove era in funzione un grande centro siderurgico del Konzern Hermann Göring Werke.

Resta da chiarire un fatto: in base a quali criteri fu deciso l’invio in KL? In base ai dati disponibili, parrebbe che la quasi totalità di essi fossero persone che avevano dichiarato di avere problemi di salute tali da non consentire loro di lavorare, o che avevano rifiutato di firmare il contratto di lavoro. Se è possibile che alcuni di essi soffrissero effettivamente di gravi patologie pregresse, dalle testimonianze dei pochi superstiti, e anche di chi invece fu avviato al lavoro coatto, sembra che la maggioranza avesse simulato o aggravato situazioni effettivamente esistenti, nella convinzione che i malati sarebbero stati lasciati in Italia, se non addirittura rimandati a casa.

Il comportamento tedesco non deve però essere letto come una semplice punizione dei simulatori. In realtà, le autorità germaniche avevano già deciso in molte province di reprimere lo sciopero del 1° Marzo inviando una parte degli arrestati in KL, con una delle prime applicazioni in Italia della “Circolare per la lotta alle bande”, fino ad allora applicata quasi solo nell’Europa orientale. Questa norma stabiliva che chi era arrestato con le armi in mano andava fucilato; chi era sospetto di appartenenza alla Resistenza senza essere colto con le armi in pugno, o i sostenitori attivi dei partigiani, andavano appunto avviati nel circuito concentrazionario, al pari dei detenuti politici; i semplici scioperanti e coloro che erano comunque in qualche maniera riconducibili ad ambienti ostili andavano avviati al lavoro coatto oltre Brennero. E, in mancanza di delatori che individuassero i promotori dell’agitazione, il rifiuto del lavoro coatto fu per i tedeschi l’elemento discriminante. In sintesi, chi rifiutava il lavoro doveva per forza essere un oppositore militante, tanto più che spesso erano i più anziani e quindi potenzialmente ex sovversivi. E come tali furono trattati, con una durezza tale da consentire la sopravvivenza di soli 8 uomini. Chi fu avviato nei KL fu concentrato a Bergamo assieme agli scioperanti provenienti da Milano, Torino e Sesto S. Giovanni e da lì partì per Mauthausen.

Comunque, la razzia di almeno 170 uomini in età da lavoro, e l’invio di quasi il 40% di essi a Mauthausen e nei sottocampi, oltre a fornire forza lavoro alle fabbriche tedesche, doveva avere l’effetto di disarticolare la resistenza in fabbrica e di inibire ulteriori scioperi, e di seminare il terrore in un territorio altrimenti difficilmente governabile e di estrema importanza dal punto di vista militare.

<strong><strong><strong><strong>Irene Guerrini</strong>: Perché tutto questo accadde a Savona? Le ragioni di un’anomalia.</strong></strong></strong>

G. CARRARA

All’inizio del volume tu e Marco problematizzate lo sciopero del 1° marzo 1944 a Savona inserendolo all’interno del quadro regionale e nazionale, con riferimento alla realtà sociale, economica e politica del 1943-‘44. Al termine della ricerca traete le fila dalle problematiche sollevate e argomentate rispondendo ad una fondamentale domanda: “Perché tutto questo accadde a Savona? Le ragioni di un’anomalia…” 

Puoi soffermarti su quest’ultimo importante aspetto?

Irene GUERRINI:

Occorre tenere in considerazione diversi fattori che provo a riassumere.

  1. Va tenuta sicuramente presente la debolezza della leadershipeconomica e industriale savonese (manca un Agostino Rocca, l’amministratore delegato del gruppo Ansaldo che sa trattare con i tedeschi) e il peso determinante degli elementi locali del PFR e degli apparati statali che sono legati all’ala più intransigente e favorevoli al pieno accoglimento di tutti i desiderata germanici.
  2. Occorre poi tenere conto della collocazione geografica della provincia, posta sullo sbocco al mare della direttrice Torino-Mar Ligure. I tedeschi ritenevano possibile uno sbarco alleato in Riviera (avvenuto il 15 agosto 1944 in Provenza) per cui era loro indispensabile mantenere sotto completo controllo la città, il suo entroterra e la costa: nulla doveva intralciare i movimenti delle truppe, l’afflusso di forze e rifornimenti verso l’eventuale area di sbarco e una possibile ritirata che consentisse di portare rapidamente uomini e mezzi in Pianura Padana per scatenarvi la battaglia difensiva finale. 
  3. Inoltre, visto il fallimento dell’agitazione a Genova e considerata la relatività marginalità di La Spezia rispetto alla principale concentrazione industriale italiana, Savona era diventata uno dei vertici di quello che, il 1° marzo, poteva essere definito come il triangolo della conflittualità operaia. Di conseguenza, finì per subire modalità di repressione dello sciopero simili a quelle, severissime, applicate a Milano, a Sesto San Giovanni e a Torino.
  4. Infine, va tenuta presente l’immaturità del movimento resistenziale per affrontare questa prova. Se da un lato le bande partigiane non erano ancora in grado di realizzare efficaci azioni armate di copertura dello sciopero e di interdizione dei movimenti delle forze rastrellanti e dei convogli che trasportavano i rastrellati, la struttura politica non era stata capace di immaginare una tale modalità di repressione, prevedendo al più la ripetizione di quanto era avvenuto solo un mese e mezzo prima a Genova, dopo gli scioperi di gennaio quando arresti, deportazioni e fucilazioni avevano colpito in linea di massima militanti sindacali e dirigenti antifascisti e non semplici lavoratori.

In conclusione, non riteniamo che si possa evocare nel caso savonese la categoria della guerra ai civili, poiché furono colpiti gli scioperanti e, attraverso loro, un ambiente sociale e una città già ben schierati. 

Non si trattava di allontanare dalla Resistenza la “zona grigia”, ma di annichilire la capacità di mobilitazione della classe operaia locale, smantellando la struttura clandestina in fabbrica (che infatti rimase inattiva per mesi), e di terrorizzare l’intera provincia, nella speranza di neutralizzare l’appoggio che vi godeva il movimento resistenziale. 

I principali centri industriali furono così colpiti nella loro identità sociale e nelle strutture produttive che ne avevano definito il carattere sin dalla fine del secolo precedente. 


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