1. LA PERSECUZIONE DEI DIRITTI (1938-1943)

1. 1. Alla fine degli anni Trenta, gli ebrei residenti nel Regno d’Italia (compresi i territori dell’Istria e delle città di Fiume e Zara) erano 46.656: poco meno dell’1,1 per mille della popolazione complessiva (circa 45 milioni di abitanti). Di questo esiguo numero, 37.241 possedevano la cittadinanza italiana, mentre i restanti 9.415 erano ebrei stranieri, in prevalenza profughi dalla Germania, dalla Polonia e dall’Europa centrale. Il processo di unificazione nazionale, culminato nel 1861-1870, aveva coinciso e si era intrecciato con il processo di emancipazione giuridica degli ebrei: profondamente legati, anche per questi motivi, agli ideali risorgimentali e alle istituzioni del nuovo Stato, gli ebrei italiani si erano rapidamente inseriti nella vita politica e sociale (come attestano, nei primi decenni del Novecento, il numero elevato di matrimoni misti, la rilevante presenza ebraica nella pubblica amministrazione, nelle libere professioni, nel commercio, nell’insegnamento, la forte concentrazione delle comunità israelite nelle maggiori città italiane del Centro-Nord)(1) . Nell’Italia postunitaria, le correnti di pensiero antisemita avevano perciò rappresentato un fenomeno minoritario, riconducibile al tradizionale antigiudaismo cattolico (essenzialmente teologico e antimodernista) o, con l’inizio del nuovo secolo, ai più recenti motivi polemici diffusi negli ambienti nazionalisti (l’identificazione degli ebrei come popolo cosmopolita per eccellenza, portatore dei germi dell’internazionalismo, del materialismo e della rivoluzione)(2) . L’avvento di Mussolini al potere (1922) non sembrò inizialmente interrompere il percorso dell’ebraismo italiano verso la piena parificazione (come dimostra una non trascurabile presenza di ebrei nel movimento fascista delle origini). Negli anni successivi, però, le principali scelte compiute dal regime – dalla Riforma Gentile al Concordato – avevano finito per configurare”un quadro fortemente persecutorio dell’eguaglianza religiosa”(3) .
Un provvisorio punto di equilibrio nei rapporti fra mondo ebraico e fascismo era stato così trovato con le norme legislative sui “culti non cattolici” e, in particolare, con l’istituzione (1930-31) dell’Unione delle comunità israelitiche italiane (l’organismo di rappresentanza davanti allo Stato di tutte le comunità ebraiche presenti sul territorio). Il nuovo ordinamento, infatti, da un lato riconosceva all’ebraismo il diritto di esistenza nell’Italia fascista, dall’altro, però, ne ribadiva il carattere subalterno di “culto ammesso”. La stessa ambiguità aveva del resto caratterizzato, nello stesso periodo, la politica di Mussolini sia verso il sionismo (considerato, da un lato, utile “grimaldello” per alterare a vantaggio dell’Italia gli equilibri geo-politici nel Mediterraneo, e, dall’altro, fattore di potenziale disgregazione dell’unità fascista della nazione), sia verso le posizioni antisemite presenti all’interno del fascismo (emarginate nei primi anni, senza mai essere state completamente sconfessate) .


(1)Per una ricostruzione a più voci della presenza ebraica in Italia dalle origini ai giorni nostri, cfr. C.Vivanti ( a cura di), Gli ebrei in Italia, Einaudi, Torino 1996-1997, 2 tomi, vol.XI degli Annali della Storia d’Italia.
(2)Sull’antisemitismo come fenomeno di “lunga durata” del carattere nazionale italiano ha tuttavia insistito D.Bidussa, I caratteri “propri” dell’antisemitismo italiano”in La menzogna della razza. Documenti e immagini del razzismo e dell’antisemitismo fascista, Grafis, Bologna 1994. Cfr.anche A. Burgio (a cura di), Nel nome della razza Il razzismo nella storia d’Italia 1870-1945, il Mulino, Bologna 1999 (in particolare la terza parte, La lunga durata dell’antisemitismo italiano. Figure e percorsi italiani tra Ottocento e Novecento, pp.215-386).
(3)M. Sarfatti, Gli ebrei nell’Italia fascista. Vicende, identità, persecuzione, Einaudi, Torino 2000, p.588