Dalla ricerca storica alla didattica della storia
I libri dell’ISREC di Savona
Percorsi didattici di storia e di educazione civica
Per il nuovo anno scolastico 2020 – ‘21 proponiamo la presentazione di volumi di storia locale, curati dall’ISREC, di rilevante interesse per la recente ricerca storiografica. Ogni presentazione è corredata da materiali didattici che – tramite fonti documentali, indicazioni bibliografiche e sitografiche – offrono spunti per la progettazione di laboratori di Storia e di Educazione civica da svolgere nelle classi.
Percorsi didattici di storia e di educazione civica
IL BIENNIO ROSSO
Materiali a cura di Giosiana CARRARA e Andrea CORSIGLIA
Sommario
Cronologia <em>Biennio rosso</em>
Da Savona all’Italia, e viceversa.
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Parole chiave
Arditi
Truppe d’assalto costituite dall’esercito italiano nel gennaio 1917, durante la Prima guerra mondiale, sul modello della “Compagnia esploratori della morte”, una banda che da subito si connota per rischiose azioni di guerriglia. Gli A. godettero di un trattamento particolare rispetto ai soldati comuni anche in forza della loro disposizione a compiere prove di coraggio o di cimentarsi in imprese estreme. Si caratterizzano per l’accentuato spirito di corpo e l’adozione di una simbologia in cui frequente è il riferimento alla morte o alla ferocia della sfida contro il nemico (“il pugnale tra i denti”). La camicia nera dell’uniforme degli A. viene in seguito adottata dai fascisti.
Del resto entrano nel repertorio del fascismo alcuni motti degli Arditi, come “Me ne frego” o “A Noi!”, e una variante della canzone “Giovinezza”. Il motivo e il testo di questa canzone, originariamente canto goliardico degli studenti interventisti, allo scoppio della Prima guerra mondiale diventa l’inno dei reparti alpini e viene fatta propria dagli Arditi. Tra il 1919 e il 1921 la canzone, con alcune varianti, accompagna sguaiatamente le scorribande degli squadristi. Infine, nella versione del testo composta da Salvator Gotta, è spesso equiparata dalla dirigenza del Partito fascista all’inno nazionale.
Arditi del Popolo
Organizzazione paramilitare di sinistra costituita nella primavera del 1921 dal tenente anarchico Argo Secondari per difendere le organizzazioni popolari dalle violenze squadriste. Tra le sue file riunisce rivoluzionari, anarchici, comunisti, repubblicani, sindacalisti rivoluzionari ma anche cattolici e dannunziani. Mancando di un efficace appoggio da parte dei dirigenti del movimento operaio, si esaurisce dopo il 1922, violentemente osteggiata dal governo Bonomi.
Camere del Lavoro
La prima Camera del Lavoro nasce a Milano nel 1891 ed è seguita da quelle di Bologna, Brescia, Cremona, Firenze, Padova, Pavia, Piacenza, Roma, Torino e Venezia. Benché originariamente apolitiche, le C. del L. presto assumono un orientamento socialista e diventano il punto di riferimento delle lotte operaie dell’età giolittiana. Sciolte dopo i moti del 1898 ma ricostruite nel 1900, da allora hanno una discreta diffusione anche nel Sud e rilevano un significativo aumento degli associati. La creazione delle federazioni sindacali di mestiere, sorte tra gli operai più qualificati, non indebolisce l’opera delle C. del L. ma introduce alcuni contrasti programmatici e di competenza specie dal 1906, a partire dalla fondazione della Confederazione Generale del Lavoro (CGdL). Le C. del L., organismi di tipo “orizzontale”, rappresentano il punto di forza delle rivendicazioni politiche generali dei lavoratori agendo con modalità più radicali rispetto alle federazioni di mestiere (organismi di tipo “verticale”), per loro natura più inclini a farsi carico dei problemi specifici delle singole categorie e disponibili alla contrattazione con la controparte. Soppresse nel 1926 per lasciare posto alle organizzazioni corporative fasciste, vengono ricostruite nel 1943 e nel 1944, con la firma del Patto di unità sindacale, assumendo il ruolo di circoscrizioni territoriali della CGIL unitaria (vd.). Nel 1948, la rottura dell’unità delle forze sindacali include le C. del L. nella CGIL (vd.) mentre la CISL e la UIL danno origine ad analoghe organizzazioni interne.
<strong>Confederazione Generale del Lavoro – CGd</strong>L
Confederazione Generale del Lavoro, fondata a Milano nel 1906 per federare le organizzazioni sindacali italiane di categoria a livello nazionale. Il suo orientamento socialista riformista esclude l’adesione dei sindacalisti rivoluzionari e degli anarchici. La dirigenza della CGdL punta a fare da guida al movimento operaio, rimarcando le distanze dal PSI specie quando il partito è governato da una maggioranza massimalista. La CGdL raggiunge il culmine della diffusione e popolarità nel primo dopoguerra, con più di 2 milioni di iscritti. Durante l’occupazione delle fabbriche (agosto-settembre 1920) mantiene un profilo moderato. Tuttavia la tendenza ad evitare il forte conflitto sociale rende incerta la sua reazione alle violenze fasciste e non esclude l’apertura di alcuni dei suoi dirigenti al nuovo regime. Ciò comunque non le garantisce la sopravvivenza durante il Ventennio. Infatti, due anni dopo il Patto di Palazzo Vidoni (2.10.1925) tra i rappresentanti della Confederazione delle Corporazioni fasciste e la Confindustria, la CGdL – ormai esautorata – è sciolta dai suoi stessi dirigenti.
Ad opera di sindacalisti comunisti e anarchici rinasce clandestinamente durante il fascismo mentre, in Francia, Bruno Buozzi, ex dirigente CGdL, fonda una confederazione analoga. Nel 1936 comunisti e socialisti unificano le due organizzazioni.
<strong>CGIL unitaria</strong>
Confederazione Generale Italiana del Lavoro, fondata con il Patto di Roma del 3 giugno 1944 da Giuseppe Di Vittorio (Partito Comunista Italiano), Achille Grandi (Democrazia Cristiana) ed Emilio Canevari (Partito Socialista). L’obiettivo dei rappresentanti delle 3 principali correnti sindacali antifasciste dei lavoratori italiani è quello di dare vita ad un sindacato unitario. Si tratta di realizzare un solo organismo confederale esteso all’intero territorio nazionale, funzionale per ogni ramo dell’attività produttiva e indipendente da tutti i partiti politici. Tuttavia, con la “guerra fredda”, emerge una maggiore dipendenza delle correnti della CGIL dai partiti che accentua i conflitti interni. Dopo la vittoria della Democrazia Cristiana alle elezioni del 18 aprile 1948 e a seguito dello sciopero generale indetto dalla CGIL per protestare contro l’attentato alla vita di Palmiro Togliatti del 14 luglio 1948, si acuiscono le divergenze interne proprio sull’uso politico dello sciopero. La corrente sindacale di orientamento cattolico – guidata dalle Associazioni Cristiane Lavoratori Italiani (ACLI) – lascia la CGIL per fondare la Libera CGIL, nel 1950 denominata CISL (Confederazione Italiana Sindacati Lavoratori). I sindacalisti repubblicani e socialdemocratici a loro volta abbandonano nel 1950 la CGIL dando vita alla Federazione Italiana dei Lavoratori (FIL) poi denominata UIL (Unione Italiana del Lavoro). La CGIL è attualmente la maggiore organizzazione sindacale dei lavoratori italiani.
Combattentismo
Movimento italiano dei reduci della Prima guerra mondiale che traggono propositi di azione politica dall’idealizzazione della loro esperienza bellica e dall’affermazione dello spirito di solidarietà tra ex combattenti. Il C. ha una natura ibrida, comprendendo sia istanze reazionarie sia democratiche. Rimane a lungo esitante nei confronti del nascente fascismo e, alla sua affermazione, si divide. Il 2 marzo 1925 Benito Mussolini scioglie il comitato centrale dell’Associazione Nazionale Combattenti.
L’Ordine Nuovo
Settimanale socialista fondato il 1º maggio 1919 a Torino da Antonio Gramsci, Angelo Tasca, Umberto Terracini e Palmiro Togliatti. Costituisce l’organo di stampa della corrente rivoluzionaria del PSI, improntata ai consigli di fabbrica. Con la fondazione del Partito Comunista d’Italia il 21 gennaio 1921, “L’Ordine Nuovo” si trasforma in quotidiano e diventa l’organo di stampa ufficiale del partito. Nel dicembre 1922 cessa le pubblicazioni per riprenderle come quindicinale nel breve intervallo del marzo-novembre 1924 e del marzo 1925.
Patto di Londra
Trattato firmato il 26 aprile 1915 con Francia, Inghilterra e Russia (Triplice intesa) dal presidente del Consiglio Salandra e dal ministro degli Esteri Sidney Sonnino, con il solo avvallo del re Vittorio Emanuele III senza che il Parlamento né gli altri membri del governo ne fossero a conoscenza e all’insaputa dell’opinione pubblica. Le clausole dell’accordo prevedevano che l’Italia entrasse in guerra a fianco dell’Intesa entro un mese e che, in caso di vittoria, potesse ottenere il Trentino, il Sud Tirolo sino al confine con il Brennero, Trieste, Gorizia, la penisola istriana (esclusa la città di Fiume), una parte della Dalmazia, le isole del Dodecaneso, il protettorato sull’Albania, il bacino carbonifero di Adalia in Asia Minore e alcune colonie tedesche.
Sciopero
Cfr. qui
Sindacati
Organizzazioni di lavoratori sorte per tutelare e difendere i diritti economici e professionali e le condizioni di vita dei propri associati. I primi sindacati nascono in Inghilterra (Trade Unions) nella seconda metà del XVIII secolo con la diffusione della Rivoluzione industriale. In Italia, a metà ‘800, nascono Società di muto soccorso (vd.) costituite per lo più da artigiani e si formarono circoli operai. Le prime formazioni sindacali italiane risalgono alla fine dell’800, con l’avvio della rivoluzione industriale partita con ritardo rispetto ad altri paesi europei. La Camera del Lavoro (vd.), fondata nel 1891 a Milano, da subito si ispira alle istanze del nascente Partito Socialista Italiano. Nel 1901 si passa alle grandi federazioni nazionali di categoria ad opera di lavoratori specializzati che danno origine alla Federazione Italiana Operai e Impiegati Metallurgici (FIOM) e alla Federazione dei lavoratori della terra (Federterra).
La relativa libertà di associazione dell’età giolittiana permette ai S. di strutturarsi: a livello nazionale nel 1906 nasce la CGdL (vd.) di orientamento social-riformista; il sindacalismo rivoluzionario ha una forte presa su alcune Camere del lavoro dando vita nel 1912 all’Unione Sindacale Italiana (USI); infine un sindacalismo “bianco” si diffonde tra i giovani democratici cristiani rendendosi attivo in alcuni settori tra cui, nel 1909, il tessile. Nel primo dopoguerra i sindacati, cresciuti di forza, ottengono importanti risultati tra i quali la giornata lavorativa di 8 ore (20 febbraio 1919) ma devono scontrarsi con le crescenti violenze prima dello squadrismo fascista, dilagante nelle campagne, e poi con lo stesso Partito nazionale fascista che, assunto il potere, esautora i S. liberi sostituendoli con il sindacato nazionale fascista, espressione del corporativismo statalizzato.
I S. rinascono nel 1944 con l’istituzione della CGIL unitaria (vd.), costituita dai lavoratori comunisti, socialisti e cattolici. Essa, tuttavia, presto si divide a fronte dei nuovi scenari della “guerra fredda”, dei conseguenti contrasti politici e degli scontri sulla funzione da attribuire allo sciopero. Nel 1950 nascono la CISL (di orientamento cattolico, socialista e laico moderato) e la UIL (di ispirazione socialdemocratica e repubblicana). Nei primi anni ’50 queste scissioni interne indeboliscono la forza dei S. Una prima ripresa si ha in coincidenza con la grande espansione economica tra gli anni ’50 e i ’60 (boom) ma l’importanza del ruolo dei S. nel mondo del lavoro si nota soprattutto a partire dal 1968 e culmina nell’autunno caldo del 1969. Tale periodo, definito non a caso “secondo Biennio rosso”, si caratterizza sia per l’incidenza assunta dalle agitazioni sociali sia per la funzione rilevante che il S. ricopre nei conflitti di lavoro. Lo confermano i risultati raggiunti a livello delle grandi conquiste salariali e aziendali dei lavoratori e la garanzia della presenza dei S. nei luoghi di lavoro (Statuto dei lavoratori del 1970). I positivi risultati raggiunti permettono, nel 1972, di realizzare una nuova unità sindacale con la costituzione della Federazione di CGIL, CISL e UIL.
Dagli anni ’80, tuttavia, con l’inizio di processi di ristrutturazione industriale, i primi fenomeni di decentramento produttivo e l’emergere di nuove professionalità si evidenziano nuove difficoltà tanto nel settore del pubblico quanto nel privato. Inoltre, dagli anni ’90, l’espansione del neoliberismo e la conseguente capitalizzazione finanziaria – cui ha fatto seguito, a partire dall’inizio del III Millennio, lo sviluppo incontrollato del settore delle comunicazioni ad opera dei nascenti colossi del web (Google, Facebook, Appel, Amazon e Microsoft) – hanno destrutturato il mondo del lavoro piegando il privato alle perverse logiche della flessibilità e assoggettando il pubblico alle cosiddette “razionalizzazioni” che hanno fortemente inciso sulla sicurezza delle condizioni di lavoro. A tali problemi il sindacato, strutturato come un organismo novecentesco, indubbiamente fatica a dare concrete risposte. Tuttavia resta il fatto che i S. costituiscono la parte fondamentale della contrattazione collettiva con i rappresentanti dei datori di lavoro e la componente essenziale delle trattative con il Governo sulle materie rilevanti in merito al mondo del lavoro.
<strong>Società Operaie di Mutuo Soccorso</strong>
Associazioni sorte nella seconda metà dell’800 dapprima in Piemonte e poi nel resto d’Italia con l’obiettivo di fornire ad operai e artigiani assistenza in caso di invalidità, disoccupazione o cessazione del lavoro. Finanziate dai soci tramite il pagamento di una quota fissa, estendono progressivamente il loro raggio d’azione anche a fini educativi. Realizzano dispensari farmaceutici e servizi di cooperazione al consumo e concedono sussidi alle famiglie di soci malati o richiamati alle armi. Originariamente influenzate da Giuseppe Mazzini, perdono progressivamente il loro ruolo ai primi del ‘900, quando si diffondono nuove forme organizzative orientate ideologicamente in senso socialista o cattolico come i Sindacati (vd.), le cooperative, le leghe rosse e quelle leghe bianche.
Soviet – Consigli
(Soviet= dal russo consiglio). Si formarono in Russia, dalla rivoluzione del 1905, come consigli rappresentativi. Nel 1917, allo scoppio della rivoluzione russa di febbraio, si costituiscono S. degli operai, dei contadini e dei soldati destinati a diventare un contropotere rispetto al governo provvisorio. Per volontà di Lenin, il cui motto era “tutto il potere ai soviet”, sono destinati a costituire la struttura di fondo del nuovo stato “sovietico” che prevede forme di democrazia diretta articolate tramite successivi livelli (S. locali, S. di distretto, S. di provincia e S. panrusso) il cui compito è di eleggere i membri del Comitato Centrale Esecutivo. Vengono però svuotati della loro potenzialità democratica dal monopolio del potere politico del Partito Comunista dell’Unione Sovietica (PCUS).
Squadrismo
Con squadrismo si intende sia l’organizzazione da parte dei Fasci di combattimento del corpo paramilitare delle “squadre d’azione” sia l’insieme delle loro azioni violente per intimidire e colpire ferocemente gli avversari. È il principale strumento che, a partire dal 1919, Mussolini e i suoi seguaci usano per imporre la loro supremazia nei luoghi in cui sono maggiormente diffuse le organizzazioni di sinistra (sedi sindacali e del PSI, Camere del lavoro, associazioni socialiste e popolari, leghe rosse, ecc.) e le amministrazioni a guida socialista. Tra i suoi principali componenti figurano Roberto Farinacci, Italo Balbo, Emilio De Bono, Cesare Maria De Vecchi e Michele Bianchi. L’azione degli squadristi ha un notevole incremento dall’autunno-inverno 1920, in coincidenza con il riflusso antisocialista seguito al Biennio rosso.
Gli squadristi operano soprattutto nella Bassa Padana e in Toscana tramite spedizioni punitive efferate. Spesso le “squadre di azione”, fornite di armi di provenienza pubblica, non vengono contrastate né dalle autorità costituite né dalla forza pubblica e talora operano addirittura con la loro complicità. Dopo la svolta dittatoriale del 1925, non risultando più funzionali ai fini del regime, vengono progressivamente sciolte e i loro componenti sono assorbiti dalla Milizia volontaria per la sicurezza nazionale (MVSN) o dagli organi dello Stato.
<strong>Suffragio universale maschile e femminile</strong>
In Italia il S.U. M. fu in parte raggiunto con la legge n. 665 del 30 giugno 1912, approvata dal quarto governo Giolitti. Per legge potevano votare tutti i cittadini maschi che avessero compiuto 30 anni, senza distinzioni di censo o cultura oppure tutti i maggiorenni (21 anni compiuti) ma in base al censo, alla cultura (alfabetismo) o all’aver svolto il servizio militare. Il corpo elettorale passò così dal 7% al 23,2% della popolazione. Al termine della Prima guerra mondiale si giunse al completo S.U.M. Venne infatti emanata la legge n. 1895 del 16 dicembre 1918 che prevedeva la concessione del diritto di voto a tutti i cittadini maschi maggiorenni (21 anni compiuti). La legge stabiliva inoltre che potessero votare anche i maschi di età superiore ai 18 anni che avessero partecipato alla guerra appena conclusasi. Com’è noto, le donne per un tempo lunghissimo furono escluse dal voto. A ben vedere, la questione del suffragio femminile era già stata discussa proprio nel 1912 ma venne presto accantonata.
In seguito, nel 1919, anche Francesco Saverio Nitti propose di allargare il voto politico e amministrativo alle donne, tuttavia il progetto non giunse all’esame delle Camere. Evidentemente, si creò un profondo vulnus in un Paese che, proprio nel pieno del Biennio rosso, pur se faticosamente, cercava con ogni mezzo di avviare un processo di democratizzazione in forza dei nuovi soggetti sociali emergenti. Nel 1923 Mussolini introdusse il suffragio universale femminile ma la legge entrò in contraddizione con la riforma degli enti locali varata dallo stesso fascismo.
Se si fa eccezione del voto alle elezioni amministrative – svoltesi in più tornate tra marzo-aprile del 1946 – le donne poterono esercitare il diritto di voto soltanto nelle elezioni del 2 giugno 1946, quando tutti gli italiani furono chiamati ad eleggere l’Assemblea Costituente e a votare per il Referendum istituzionale. La legge che conferì il diritto di voto alle italiane fu il Decreto legislativo luogotenenziale n. 23 del 2 febbraio 1945, varato durante il secondo governo Bonomi, che conferiva tale diritto a tutte le maggiorenni (21 anni compiuti) eccetto le prostitute schedate (le cosiddette “vaganti”) che esercitavano “meretricio fuori dei locali autorizzati”. Quest’ultima esclusione cadde nel 1947. Invece l’eleggibilità delle donne (dunque non solo la possibilità di accedere al voto) venne riconosciuta con il decreto n. 74 del 10 marzo 1946 e fu integrata tramite le pari opportunità dalla nuova versione dell’art 51 della Costituzione Italiana (modificata con la legge costituzionale del 30 maggio 2003 n. 1).
Le masse e la violenza
La vittoria della Grande Guerra porta ben pochi benefici all’Italia che, al contrario, è investita da una profonda crisi economica foriera di altrettante tensioni sociali. Gli opposti poli politici, che si erano scontrati pochi anni prima sull’opportunità dell’intervento in guerra dell’Italia, non trovano ricomposizione neppure al termine del conflitto: la distanza è incolmabile. Questi contrasti – mai superati – portano a nuove tensioni che si sommano all’incertezza economica. La società è in subbuglio.
Il biennio 1919-1920, a distanza di un secolo, appare come un coacervo di avvenimenti che si allacciano andando a comporre un clima sociale, politico e culturale irrequieto e spesso improntato alla violenza, che avrà come sbocco la marcia su Roma e come esito il Ventennio fascista. Sembra dunque riduttivo classificare il biennio ’19-‘20 esclusivamente come “rosso”, tante e diverse sono le tensioni ideologiche che lo attraversano. Molte tra queste sono connotate dall’insofferenza verso il parlamentarismo e la classe politica che ha guidato l’Italia dall’inizio del Novecento al primo dopoguerra. Ad essere sotto accusa è il “sistema Giolitti”, una politica tutta giocata nei corridoi dei palazzi di governo, fatta di accordi più o meno segreti ma lontana dalle piazze e dalle masse. Questa insofferenza si nutre di un propellente formidabile: la violenza. Come nota lo storico Andrea Baravelli:
In Italia il progressivo affermarsi di un modo nuovo di fare politica, ispirato dall’inflessibile e irrefutabile affermazione delle identità di parte (visibilmente segnalate dall’abuso di uno stuolo di simboli), fu favorito da una nutrita serie di fattori: la violenza – ancora più simbolica che effettiva – che fece da ancella alle radiose giornate del maggio 1915. [1]
I corridoi di palazzo, il Parlamento, vengono sostituiti dalle piazze. Se sul finire dell’Ottocento e i primi del Novecento le masse erano un elemento di disturbo da rabbonire a cannonate o con concessioni d’occasione, nel primo dopoguerra diventano una componente ineludibile del gioco politico. Le capacità di percepire gli umori della massa, farsene interpreti, saperla affascinare e guidare, costituiscono il nucleo imprescindibile della nuova politica: il controllo della piazza, anche come luogo fisico, diventa fondamentale.
Particolarmente illuminanti sono le parole del filosofo spagnolo Ortega-y-Gasset: la moltitudine, improvvisamente, s’è fatta visibile, si è installata nei luoghi migliori della società. Prima, se esisteva, passava inavvertita, occupava il fondo dello scenario sociale; adesso, che è avanzata nelle prime linee, è diventata essa stessa il personaggio principale. Ormai non ci sono più protagonisti ma soltanto un coro. Il concetto di moltitudine è quantitativo e visivo. Se proviamo a tradurlo, senza alterarlo, nella terminologia sociologica, allora troviamo l’idea della massa sociale. Per Ortega y Gasset la società è sempre un’unità dinamica costituita da due fattori: minoranze e masse. Le minoranze sono date da individui o gruppi di individui particolarmente qualificati. La massa è l’insieme di persone non particolarmente qualificate. Non si intenda per masse, però, soltanto o principalmente «le masse operaie». Massa è l’uomo medio. In questo modo si converte ciò che era mera quantità – la moltitudine – in una determinazione qualitativa: è la qualità comune, è il campione sociale, è l’uomo in quanto non si differenzia dagli altri uomini, ma ripete in sé stesso un tipo generico [2].
E le masse hanno bisogno di simboli che sintetizzino e drammaticamente semplifichino le ideologie, le rendano vessilli di “mondi” dove regna la coerenza e il senso stesso dell’esistenza. Gli opposti universi ideologici, già esistenti prima della Grande Guerra, si allontanano ulteriormente scontrandosi proprio sull’interpretazione da attribuire all’esperienza bellica da poco conclusa: ai nazionalisti, con la celebrazione della nazione italiana e la nascita di miti come la “vittoria mutilata”, si contrappone l’internazionalismo di classe. Una contrapposizione che si basa sull’obiettivo di escludere “l’altro” dalla scena politica. La ribellione delle masse consisteva così nella pretesa, vincente, di “travolgere tutto ciò che è differente, egregio, individuale, qualificato e selezionato” [3] in nome, appunto, dell’arbitrio assoluto della volontà popolare a cui non può essere opposto alcun vincolo formale e normativo, neppure quello che le stesse masse si fossero date.
Si scatena quindi la corsa ad occupare le piazze, un’occupazione fisica e territoriale, per diventare massa e imporsi. Simboli e violenza non sono una novità nel panorama politico italiano: basti pensare ai Fasci siciliani o ai moti di Milano nel 1898. Ma, dai primi del Novecento, lentamente qualcosa cambia. Un diverso tipo di violenza è già in nuce negli anni che precedono il conflitto mondiale. Si pensi al 1915, alle “radiose giornate di maggio”, esemplificative di un nuovo e inquietante modo di fare politica: folle da ammaestrare con la retorica, politici da intimidire con la violenza. In quel momento si può dire che abbia inizio quella che è stata definita la brutalizzazione della politica [4]. Essa, durante il biennio rosso, manifesta un’ulteriore accelerazione: non si tratta più di una violenza spontanea o variamente organizzata, è la violenza figlia della Grande Guerra e di quanti hanno fatto della guerra la loro ragione di vita.
[1] Andrea Baravelli, Lotte e affermazioni di simboli, in Gli italiani in guerra, a cura di Mario Isnenghi e Giulia Albanese, Utet, Torino 2008, vol. IV, p. 75.
[2]Cfr. La ribellione delle masse, saggio di José Ortega y Gasset pubblicato nel 1930 e tradotto in lingua italiana soltanto nel 1962. I riferimenti riportati nel testo sono a p. 91 e sgg. della versione disponibile qui.
[3] Ivi, pag. 32.
[4] Cfr. Giulia Albanese, Brutalizzazione e violenza alle origini del fascismo, in “Studi Storici”, vol. 55, n. 1, 2014, pp. 3-14.
Il primo dopoguerra in Italia.
Tensioni sociali e rappresentanza politica.
Alla violenza della Prima guerra mondiale vanno accostate le agitazioni che, dalla primavera del 1919 al settembre 1920 – e poi oltre, sino all’avvento del fascismo -, coinvolgono tanto gli operai delle fabbriche quanto i braccianti, mossi da due potenti fattori: il generale peggioramento delle condizioni di vita a causa della crisi post-bellica e la forza mobilitante della Rivoluzione russa dell’ottobre 1917. Nel 1919, del resto, l’attrazione esercitata dalla Russia bolscevica sulle masse lavoratrici d’Europa e del mondo non ha precedenti. Il nuovo Stato comunista appare come il “modello universale di superamento del capitalismo e delle sue diseguaglianze attraverso l’emancipazione del lavoro e una gestione razionale dell’economia da parte dello stato” [5]. In questa prospettiva, esso costituisce la prova vivente che gli oppressi possono liberarsi ma, al contempo, inquieta profondamente i ceti borghesi.
«Fare come in Russia» è una parola d’ordine che si diffonde nelle trincee, intrecciando la speranza di una pace immediata a quelle di una successiva palingenesi sociale. «Impedire che succeda come in Russia» è l’invito perentorio delle cancellerie e dei governi, dei giornali borghesi e dei partiti conservatori.[6]
I contadini italiani, inviati a migliaia in guerra – e per lo più assai poco inclini allo spirito patriottico che accomuna invece buona parte dei borghesi-, ritornano dal fronte decimati e stentano a riconoscersi nelle vecchie logiche dello Stato liberale. Il bracciantato, in parte attratto dall’antimilitarismo e dall’internazionalismo socialista e in parte dal mito del “fare come in Russia”, si solleva nella Bassa Padana, sostenuto dalle leghe rosse, per ottenere la “socializzazione della terra”.
Nelle aree del Centro-Nord, dove domina la mezzadria e la piccola proprietà, i lavoratori agricoli, rappresentati per lo più dalle leghe bianche, si battono per la piccola proprietà contadina. Mentre nelle campagne del Centro-Sud i contadini poveri, sovente ex combattenti, lottano contro i padroni per l’occupazione delle terre incolte e dei latifondi. Le agitazioni agrarie percorrono la Penisola da Nord a Sud ma gli sforzi dei contadini sono slegati, privi di coordinamento nazionale, e gli obiettivi, che divergono profondamente, sono destinati a fallire.
A farsi carico di una parziale organizzazione del movimento nelle campagne più che la sinistra socialista, e poi comunista, sarà il Partito Popolare Italiano (PPI), fondato dal sacerdote siciliano Luigi Sturzo il 18 gennaio 1919. Pur soggetto alle continue pressioni disciplinanti del Vaticano, il Partito Popolare opta originariamente per le classi meno agiate ed ha nell’universo contadino il proprio interlocutore privilegiato. Non riesce però a rispondere alla complessità di richieste provenienti da un Paese incistato nella questione agraria e vittima, specie al Sud, di rapporti ancora feudali imposti al bracciantato dai latifondisti.
Gli operai, attivi soprattutto nelle industrie del Nord-Ovest, ostili fin dalla prima ora alla guerra e permeati dal pacifismo e dell’internazionalismo socialista, tra l’estate 1919 e il settembre 1920 mettono in atto una serie di misure volte a ridurre l’orario lavorativo, a migliorare i propri salari e le condizioni di lavoro (obiettivi per così dire “sindacali”) [7]. Ma nei loro propositi non c’è soltanto questo. Ispirati dalla rivista torinese “L’Ordine Nuovo” di Antonio Gramsci, molti operai puntano a più alti obiettivi. Si tratta di pensare ad un diverso e più diretto modo di gestire il lavoro, ai suoi tempi e alla complessa questione dei profitti. In ballo c’è il controllo operaio del lavoro di fabbrica, sostenuto da gruppi di lavoratori organizzati dal basso che sperimentano forme di democrazia diretta sul modello dei soviet. Prima della costituzione del Partito Comunista d’Italia (21 gennaio 1921) tale obiettivo, che configura un quadro politico radicalmente nuovo, è però ancora confuso. Il Partito Socialista (PSI), che esercita una grande influenza sul proletariato di fabbrica, è diviso tra la sinistra massimalista di Giacinto Menotti Serrati, che controlla il partito e inneggia alla rivoluzione dei lavoratori ma appare incerto sul piano dell’azione politica effettiva; i riformisti di Filippo Turati e Claudio Treves, sostenuti dal gruppo parlamentare e dalle amministrazioni locali, propensi ad evitare rigide contrapposizioni classiste e tendenzialmente favorevoli all’allargamento delle alleanze; e i comunisti di Amadeo Bordiga e Antonio Gramsci, politicamente filorussi, fautori dell’autogestione operaia delle fabbriche e dell’esperienza consiliare.
La divisione interna al PSI, destinata allo scacco, non offre una guida salda ed unitaria al movimento operaio. Del resto, la frequenza delle agitazioni del proletariato di fabbrica e la durezza degli scontri nelle campagne scatenano la cosiddetta “grande paura” che percorre tanto l’alta borghesia, preoccupata dalle agitazioni operaie e dal “pericolo rosso”, quanto il ceto medio, che ha sostenuto la guerra, crede nei valori patriottici, confida nella stabilità dell’ordine proprietario e teme il disordine sociale e i rivolgimenti politici prospettati dai socialisti.
Ma se il proletariato di fabbrica e il mondo contadino trovano nei partiti di massa, il PSI e il PPI, nei sindacati e nelle associazioni di categoria una qualche forma di rappresentanza, la borghesia, in tutte le sue stratificazioni, si riconosce sempre meno nel Partito Liberale. I liberali, che fanno capo a Giovanni Giolitti, si dimostrano infatti incapaci di comprendere a pieno le conseguenze introdotte dalla società di massa e i mutamenti prodotti nella scena politica dall’avvento di strati sociali prima esclusi.
[5] Vittorio Foa, Questo Novecento, Einaudi, Torino 1996, p. 81.
[6] Marcello Flores, 1917. La Rivoluzione, Einaudi, Torino 2007, p.106.
[7] Il modello di riferimento è dato dagli operai del settore metallurgico, rappresentati dalla FIOM (Federazione Impiegati e Operai Metallurgici). La FIOM, che nel primo dopoguerra vantava più di 47.000 iscritti, il 20 febbraio 1919 raggiunge un accordo con l’Associazione industriali di categoria che permette ai lavoratori di ottenere la riduzione oraria a 8 ore giornaliere e 48 settimanali, il riconoscimento e l’istituzione di Commissioni interne di fabbrica e la nomina di due commissioni per migliorare la legislazione sociale e per studiare la questione della riforma dei salari e del carovita.
Possibile democrazia o svolta autoritaria?
Al di là del mito rivoluzionario di occupazione delle fabbriche, atteso da migliaia di lavoratori ma che s’incrina pericolosamente alla fine del settembre 1920, e del ritorno al “sistema Giolitti”, auspicato dalla classe dirigente liberale e dalla borghesia, nel biennio 1919-1920 due sembrano essere le soluzioni che si prospettano per l’Italia.
L’una, sicuramente complessa e con un’articolazione di lunga durata, potrebbe tradursi nella scommessa di modernizzare il Paese rafforzando il sistema della rappresentanza politica di operai e contadini, le classi fino ad allora escluse. Il proposito è nelle corde dei due partiti di massa, il Partito Socialista e il Partito Popolare, benché entrambi pongano la questione secondo termini, contenuti e strumenti del tutto dissimili. L’altra soluzione profila invece una svolta autoritaria mossa da una nuova forza politica proteiforme, che intende porre fine ai disordini e alle violenze tramite una violenza di segno opposto. Essa, pur priva – almeno alle origini – di un’ideologia univoca, si presenta come un’istanza ordinante che garantisce la stabilità agendo su due piani. Per un verso, promette la cancellazione dei diritti e delle libertà dei cittadini e dei lavoratori e la soppressione delle minoranze; e, per l’altro, garantisce la conservazione delle strutture del potere esistenti: esercito, burocrazia, Chiesa e monarchia. Nella sostanza: alterna il disprezzo per la democrazia al rispetto delle istituzioni che hanno assicurato la continuità dello Stato. E sono proprio queste le linee di condotta con cui il nascente fascismo catturerà il consenso dei liberali. Tesi ad «impedire che succeda come in Russia», i ceti dirigenti e i liberali giolittiani pensano di servirsi di Mussolini e dei suoi uomini come si fa con uno strumento utile ma di cui poi, una volta raggiunto l’obiettivo, ci si disfa. Ma si sbaglieranno.
Le due possibili soluzioni – allargamento della democrazia e svolta autoritaria – perseguono lo stesso fine: la governabilità dell’Italia, ma i loro presupposti non hanno nulla in comune. Il Paese, profondamente cambiato dall’avvento della società di massa e dalla Grande Guerra, con la conquista del suffragio universale maschile dà voce a soggetti nuovi, che provengono da strati sociali storicamente esclusi: i salariati dell’industria e le masse contadine. La posta in gioco è altissima. Da un lato, la scommessa di trasformare il Paese in una democrazia moderna, tramite istituzioni inclusive, riforme progressive e un nuovo senso della nazione che prenda le distanze dal rancoroso nazionalismo della “pugnalata alla schiena” e guardi ai diritti di tutti i lavoratori e alla loro realizzazione. Dall’altro, un’inedita rivoluzione che, fallita quella proletaria del “biennio rosso” miri a restituire alla borghesia dell’industria e al padronato agrario il vecchio ordine sociale messo a dura prova dalle rivolte proletarie: è il programma che, nel cosiddetto “biennio nero”, porta avanti l’ambivalente Benito Mussolini, ex socialista rivoluzionario.
Tuttavia la prima soluzione non può contare sulla concordanza delle sue componenti, il PSI e il PPI, ben lontane dallo sforzo per conseguire, pur su diversi fronti, il comune obiettivo. D’altra parte, i due partiti di massa, di per sé presi, appaiono mossi da spinte “centrifughe” e sostanzialmente esterofile: il PSI (e poi il PCI), benché non in tutte le sue componenti, inclina al modello fornito dallo Stato Russo ossia all’emancipazione dei lavoratori a partire dall’abolizione del sistema capitalistico; mentre il PPI, nonostante gli sforzi del suo fondatore, subisce l’influenza della Santa Sede che limita le istanze più vitali tratte dalla dottrina sociale cristiana.
Nel primo dopoguerra l’idea di nazione, certamente compromessa dall’esperienza bellica e corrotta dalle logiche nazionalistiche di una larga parte dell’interventismo, è fortemente in crisi. Ma un Paese che ambisce alla ricostruzione dopo il crollo apportato dalla guerra deve poter contare su un qualche “senso di comunità”, ha bisogno di un’identità riconoscibile da parte dei suoi abitanti ed al contempo inclusiva anche di chi su quel territorio non è nato ma per esso ha lottato o lavorato. Insomma, necessita di una serie di tratti distintivi che lo definiscano unitariamente per predisporre chi ne è parte alla realizzazione di un progetto collettivo del tutto nuovo. Sottovalutare il significato dell’istanza nazionale sino a negarla oppure ridicolizzarla facendola coincidere tout court con il nazionalismo imperialista può dare adito a pericolose conseguenze. Esiste infatti un processo identitario nazionale che, inteso come “patriottismo positivo” [8], può configurarsi come valore fondante di un paese in quanto è in grado di indirizzare virtuosamente i cittadini verso obiettivi di cooperazione comune e permette allo stato di procedere in armonia con gli altri stati. Negarne l’esistenza e la funzione apre la strada a chi della nazione concepisce soltanto i risvolti espansionistici e li sostiene con l’autoritarismo interno. E il fascismo fu anche questo.
[8] Cfr. Vittorio FOA, Questo Novecento, Einaudi, Torino 1996, p. 86.
Reducismo e Arditi.
Come influenzarono il panorama politico italiano.
Finita la guerra, il primo problema da affrontare è la riconversione dell’economia: il passaggio da un’economia di guerra ad una di pace non è un processo di facile attuazione ma è urgente e necessario: i beni di prima necessità scarseggiano, il cibo è soggetto a continui rincari e le materie prime sono difficili da reperire.
Il continuo aumento dei prezzi è aggravato dalla forte svalutazione della lira generata dalla continua emissione di cartamoneta durante il periodo bellico.
Alla conversione dell’economia dovrebbe corrispondere il progressivo reinserimento nella vita civile di quanti avevano combattuto al fronte, persone che spesso si erano arruolate inseguendo il miraggio di un compenso (assegnazione di terre demaniali). Nel 1919 la promessa non è stata mantenuta e questo aumenta il risentimento verso lo Stato da parte dei reduci. Non è solo un problema di corresponsione ma di rabbia per una promessa non mantenuta, una rabbia che non si sarebbe spenta facilmente. A questa problematica si aggiunse quella legata agli invalidi di guerra, circa 470 mila privi di uno status sociale (un’apposita legge per la loro tutela giuridica fu varata solo nel 1923).
Il cuore della questione è più in profondità: l’impossibilità di molti reduci di uscire da quella dimensione parallela e straziante nella quale avevano vissuto per tre anni: una realtà fatta di violenza allo stato puro, agita e subita, una violenza dalla fisionomia inedita e incomprensibile che produce mutamenti irreversibili nella personale percezione della realtà: “Le trincee i camminamenti tutti andavano per aria il fuoco era terribile la fucileria le bombe che scoppiano, non ce ne capivi più niente avevi la testa più al posto, eri come un matto” .
Il trauma del conflitto non si esprime solo in queste modalità dure ed evidenti, ma vi è un cambiamento latente, più sottile, impercettibile ad un primo sguardo, che ha cambiato profondamente la coscienza della generazione che prende parte al conflitto.
Questo dato sembra confermato dalle parole di Eros Francescangeli:
Tra i principali fattori agglomeranti del “reducismo” vi fu quello riconducibile a istanze di natura psicologica correlato al reinserimento nella vita civile. […] alla fine del conflitto bellico l’aspettativa dei combattenti è sempre stata quella che all’interno della collettività d’appartenenza venissero messe in atto pratiche di riconoscenza nei confronti dei sacrifici da essi patiti e dei danni subiti (non si dimentichi che tra coloro che riuscirono a tornare dal fronte molti rimasero mutilati). I turbamenti provocati dagli orrori della guerra e la percezione […] dell’indifferenza, quando non dell’ostilità, dei civili, produssero in alcuni veterani un senso di frustrazione e rancore che si tradusse nell’incapacità di riadattarsi alla vita di tutti i giorni. [9]
Alcune temperie psicologiche come il mito futurista, il vitalismo, il coraggio sprezzante anche della morte, che avevano spinto tanti giovani ad arruolarsi, si erano tramutate in realtà durante la guerra e si erano concretizzate nella nascita di unità particolari, che costituivano un unicum all’interno dell’esercito regolare.
Gli Arditi fanno la loro comparsa ufficiale nell’estate del 1917. La funzione richiesta a questi corpi speciali è precisata in una circolare del 1918:
estrema rapidità di movimenti; abitudine ad imbastire prontissimamente un’azione qualsiasi, dopo una rapida ricognizione del terreno e della situazione; decisione massima di esecuzione, la quale dovrà essere sempre condotta a fondo senza esitazione”. [10]
Sono corpi speciali e speciale e il trattamento a loro riservato, vivono la guerra da privilegiati: la paga è migliore, il rancio è migliore, non prestano i servizi di routine a cui sono obbligati gli altri soldati. Ma chi sono davvero gli Arditi? Confluiscono in questi reparti sicuramente moltissimi soggetti mossi da istanze differenti: alcuni sono spronati da fede politica, altri da ideali le cui radici affondano nella cultura delle avanguardie del primo Novecento (patrioti, nazionalisti, interventisti ma anche futuristi). Tuttavia i privilegi di cui godono attirarono, verso questo mondo anche individui dal passato poco limpido, e spesso criminoso. La matrice delle loro azioni è la violenza verso il nemico esterno e interno (come, per esempio, gli “imboscati”) e il disprezzo per qualsiasi forma di “normalità”. Non a caso proprio la normalità era considerata un tratto specifico della borghesia, ed era disprezzabile in quanto tale. Per questi uomini la smobilitazione rappresenta un vero e proprio trauma; tant’è vero che “ormai avvezzi alle emozioni forti della guerra, ma anche ai suoi rituali e alle sue pratiche, mal si adattarono al rientro nei ranghi della vita civile” [11].
E questi rituali e queste pratiche si riverseranno direttamente nella scena politica italiana; assumeranno inclinazioni politiche profondamente differenti ma le modalità e la simbologia rimarranno identiche, accomunando gli Arditi a D’Annunzio, a chi si avvicinerà a Mussolini e a quelli che si coalizzeranno attorno alla figura di Argo Secondari per dare vita agli Arditi del popolo:
l’emblema ufficiale, infatti, era il teschio, cinto da una corona d’alloro, con il pugnale tra i denti, sotto il quale capeggiava la scritta “A noi! […] Anche le canzoni erano mutuate dall’arditismo bellico: dei due inni ufficiali dell’associazione, uno veniva cantato sull’aria di Fiamme nere, l’altro sull’aria di Giovinezza. [12]
Si tratta di elementi destinati a confluire e, a loro modo, a rafforzare, quella militarizzazione della politica e dello scontro politico in atto dalla fine della Grande Guerra:
fonti testimoniano […] l’esistenza di una struttura interna fortemente militarizzata, la presenza di modalità di schieramento e manovra di tipo militare, nonché una serie di episodi di resistenza organizzati con criteri che implicavano la padronanza delle tecniche di combattimento e una forma mentis non estranea a culture riconducibili a contesti marziali. [13]
La riflessione è sulla forma mentis, figlia della Grande Guerra, che come abbiamo visto incanalerà la vita politica italiana verso l’estrema violenza degli anni del biennio rosso e che vedrà nello squadrismo la sua espressione maggiormente compiuta. È il caso di ricordare che Cesare Maria De Vecchi e Giuseppe Bottai, entrambi Ministri dell’Educazione nazionale durante il fascismo, erano stati Arditi.
[9]Eros Francescangeli, Una storia comune, un soggetto diviso: gli ex combattenti, in “Gli Italiani in guerra” a cura di Mario Isnenghi e Giulia Albanese, Utet, Torino 2008, Vol. IV, t. 1, pag. 81.
[10] Eros Francescangeli, Arditi, non gendarmi, in “Gli Italiani in guerra” a cura di Mario Isnenghi e Giulia Albanese, Utet, Torino 2008, Vol. IV, t. 1, pag. 87.
[11] Ivi, pag. 88.
[12] Ivi, pag. 89.
[13] Ibidem.
Primo intermezzo didattico. Materiali per l’approfondimento
Gli elementi teorici forniti possono offrire spunti di partenza per percorsi didattici volti alla realizzazione, da parte degli alunni, di prodotti digitali di diverso tipo (dalla semplice presentazione in ppt alla creazione di un video) focalizzati sulle conseguenze, non solo materiali, della Grande Guerra. Di seguito indichiamo alcuni materiali utili che riprendono tematiche indispensabili per lo sviluppo del percorso didattico:
- Il primo elemento di riflessione è incentrato sulle “novità” della Prima guerra mondiale, da intendersi sia come “guerra totale” sia per essere stata fortemente condizionata dal recente sviluppo industriale. Un interessante contributo che permette di inquadrare e sintetizzare il problema della Grande Guerra come “laboratorio di modernità” è dato dal breve video di Massimiliano Panarari (Università di Bologna) su “La grande trasformazione 1914-1918” che potete trovare qui.
- Altrettanto interessanti da considerare sono le conseguenze prodotte dell’esperienza della guerra direttamente sugli uomini che la combattono. A questo proposito si possono utilizzare questi brevi ma esaustivi documenti digitali relativi alle disfunzioni fisiche e psicologiche indotte nei soldati dalla prolungata vita nelle trincee: “Il sorriso della follia”: il soldato sotto shock” e ancora “La follia nelle trincee”. Sullo stesso tema si possono analizzare alcune pagine tratte dal saggio dello storico Antonio Gibelli L’officina della guerra. La Grande Guerra e le trasformazioni del mondo mentale (Bollati Boringhieri, Milano 2007, pp. 164-169).
- Sul tema del reducismo possono costituire un valido materiale didattico le pagine che Giuseppe Milazzo riporta nel volume Il sangue e gli ideali. Cronaca degli eventi che infiammarono Savona tra il 1919 ed il 1924. Parte prima: Il Biennio Rosso (Editrice Impressioni Grafiche, Acqui Terme 2020, pp. 77-79) consultabili qui. Altrettanto interessanti sono i passi tratti dal saggio di saggio di Eros Francescangeli, Arditi non gendarmi (in “Gli Italiani in guerra” a cura di Mario Isnenghi e Giulia Albanese, Utet, Torino 2008, Vol. IV , t. 1, pp. 89-92) e da quello di Giulia Albanese Brutalizzazione e violenza alle origini del fascismo (in “Studi Storici”, vol. 55, n. 1, 2014, pp. 3–14).
L’occupazione delle fabbriche: una “rivoluzione mancata”?
Che cos’è il biennio rosso? Si può definire come una lunga ondata di agitazioni che coinvolgono l’intero Paese. Questa è la novità: il coinvolgimento di tutta la Penisola in questa lotta, una lotta che nasce, in un primo momento, da moti spontanei contro il costante aumento dei beni alimentari. Moti spontanei, privi di un’orchestrazione politica. Le proteste sono violente e imprevedibili: i partiti di massa arrivano in ritardo e, almeno in un primo momento, si pongono come mediatori tra lo spontaneismo della protesta e le vittime (commercianti in genere). Una situazione instabile che vede convergere sulla scena motivazioni economiche e sociali. Un propellente eccellente per infiammare le piazze delle città, le campagne e le fabbriche. Al malcontento delle classi sociali meno agiate si aggiungeva quello della piccola e media borghesia delle città che aveva visto il proprio tenore di vita ridursi sotto i colpi dell’inflazione.
La situazione savonese non è differente dal quadro nazionale: La mattina del 7 luglio tra la popolazione savonese si sparse la notizia che le autorità avevano imposto la vendita a metà prezzo della frutta, della verdura e dei principali generi commestibili. […]. Verso mezzogiorno cominciarono a verificarsi i primi episodi di violenza nelle piazze e nelle vie del centro urbano. Alcuni torbidi elementi sfaccendati o dediti abitualmente azioni delittuose, secondo quanto fu affermato dai giornali, si infiltrano tra la folla e iniziarono ad aizzarla a saccheggiare i negozi, senza essere contrastati da nessuno. [14]
Generalmente, come data di inizio delle prime agitazioni sociali, si pongono i mesi di giugno e luglio del 1919. L’estate vede l’intensificarsi delle agitazioni: gli scioperi sono nella maggior parte dei casi spontanei, a conferma della sostanziale incontrollabilità della situazione da parte delle organizzazioni sindacali. Le tensioni fra lavoratori e padronato si verificano quasi simultaneamente nelle campagne (nel mese di maggio ci sono agitazioni e tumulti per il rinnovo del “patto colonico”) e nelle città. I movimenti di protesta, tuttavia, sono in buona sostanza accomunati soltanto dal momento storico; restano infatti separati e non si saldano mai in un fronte unico.
La città e le fabbriche
Di fronte alla turbolenza operaia, dopo aver a più riprese sollecitato il sindacato a farsi carico del rispetto dei concordati e a discutere modalità di intervento per riportare la normalità nelle fabbriche, gli imprenditori finirono per constatare la scarsa rappresentatività delle organizzazioni riformiste, denunciata dalla incapacità di tenere a freno la base. [15]
Nonostante i miglioramenti contrattuali ottenuti, l’insofferenza dei lavoratori perdura: gli accordi vengono continuamente rimessi in discussione in un circolo vizioso dettato dallo squilibrio tra i prezzi dei beni di consumo, in continua ascesa, e l’immobilità dei salari:
Tra l’ottobre del 1919 e il marzo 1920 furono più di 800 le vertenze condotte dal consiglio di fabbrica nella sola Fiat Centro. […] Tra le rivendicazioni di carattere più generale, vengono sempre più insistentemente avanzate quelle delle tolleranze sui ritardi all’ingresso e del sabato inglese, conquiste del periodo prebellico che erano state abolite con la riduzione della giornata lavorativa da dieci a otto ore. [16]
Il 22 marzo 1920 lo sciopero delle “lancette”, scoppiato a Torino a partire dalla protesta della Commissione interna delle “Industrie Metallurgiche”, porta al licenziamento dei rappresentanti degli operai (cinque) che si rendono colpevoli di aver spostato di un’ora le lancette dell’orologio aziendale. L’azione è una conseguenza di quanto accaduto nei giorni precedenti: nell’ennesima contrattazione era stato nuovamente negato il “sabato inglese” e contestualmente la concessione di posticipare di un’ora la giornata lavorativa a seguito dell’entrata in vigore dell’ora legale. Nei giorni seguenti viene indetto uno sciopero generale di solidarietà con i lavoratori licenziati: scendono in piazza 120 mila operai ma senza il consenso o l’appoggio della CGdL e ancora meno del PSI, che etichetta lo sciopero come una futile ragazzata. In realtà i timori sono altri. Si profila una vittoria per gli industriali che, forti di questo successo, iniziano la contrattazione per il rinnovo del contratto nazionale dei metallurgici previsto per il mese di giugno. Lo scontro fra industriali e operai si protrae per tutta l’estate: le fabbriche sono occupate, sui tetti sventolano le bandiere rosse, le guardie rosse armate ne sorvegliano gli ingressi. Giolitti, come da tradizione, non reprime e conta sul logoramento del movimento. Lo sciopero non può durare all’infinito, gli operai, le organizzazioni sindacali, i partiti arrivano presto ad un interrogativo cruciale: allargare la protesta al di fuori della fabbrica, trasformare lo sciopero da economico a politico, insomma dare il via alla tanto agognata rivoluzione?
Si arriva così all’11 settembre e al Consiglio nazionale della CGdL che respinge, dopo la votazione, la proposta rivoluzionaria: si ritiene inopportuno il salto di qualità. Giolitti, anche in questo caso, ha interpretato con lungimiranza la situazione: pochi giorni dopo si arriva all’accordo e al rinnovo del contratto nazionale con notevoli migliorie salariali e normative per le maestranze (vengono anche garantiti sei giorni di ferie l’anno). L’accordo è votato dalla maggioranza del movimento operaio. Di contro, gli industriali lo vedono come l’estorsione frutto di un ricatto, che poteva ripetersi, magari in forme più gravi, e dal quale ci si doveva in qualche modo tutelare.
L’occupazione delle fabbriche si chiude, e si chiude con un compromesso percepito come un’occasione mancata dai militanti più radicalizzati del movimento operaio. Il PSI, come i sindacati, verranno lungamente criticati per l’atteggiamento tenuto. Nella narrazione politica nasce il concetto di “rivoluzione mancata” conseguenza, al di là dei proclami nei comizi, dello spirito di molti politici dell’epoca:
Si trattava pur sempre di quel partito un cui dirigente, Costantino Lazzari, massimalista di sinistra, a Lenin che gli raccomandava di occupare le fabbriche dopo accurata preparazione, rispose: «Sì, l’idea è giusta, ma poi … che ne facciamo degli industriali?». E quando Lenin, senza mezzi termini, replicò: «Liquidateli!», lui mostrandosi preoccupato della loro sorte, si giustificò in dialetto milanese: «Ma scior Lenin, num milanes semm brava gent!». [17]
In realtà, la rivoluzione in Italia avvenne, e avvenne in modo brutale partendo dalle campagne dove il biennio rosso aveva assunto forme più violente e radicali rispetto alle lotte di fabbrica e cittadine.
Le campagne: l’occupazione delle terre
Non si deve sottovalutare un dato fondamentale: l’Italia, nonostante il progredire dell’industrializzazione, è un Paese ancora prevalentemente agricolo. Lo scontro nelle campagne si radicalizza in fretta: le posizioni sono inconciliabili, i contadini si muovono spinti da un’unica rivendicazione: “la terra a chi la lavora”. Molti braccianti erano partiti per la guerra mossi dalla promessa di terra da lavorare una volta finito il conflitto. Nel 1919 le promesse erano rimaste tali: non era accaduto nulla, ora rivendicano quello che gli spetta: l’assegnazione di terre accompagnata da altre rivendicazioni come il monopolio di collocamento, l’imponibile di manodopera, l’occupazione delle terre incolte. Le leghe rosse e le leghe bianche sono le protagoniste delle agitazioni nelle campagne. I scatenano proteste durissime generate dalle desolanti condizioni di vita dell’Italia agraria. L’interrogativo che ci si deve porre è quanto di politico ci fosse in questi movimenti. Interessante, a questo proposito, quanto scrive la storica Sparta Tosti a proposito delle campagne del ferrarese:
Alcuni numeri sono particolarmente indicativi del fenomeno nel 1920: gli iscritti al partito socialista erano 2.000 mentre 90.000 gli aderenti alle leghe. Il trionfo del sindacalismo rivoluzionario e del massimalismo delle leghe era dovuto alla rabbia dei proletari agricoli: la miseria in cui vivevano, infatti, tendeva a far prevalere le rivendicazioni sull’aspetto più propriamente politico. Il sindacalista diventava un punto di riferimento delle masse bracciantili e spesso si presentava come un importante mediatore, accentuando sempre di più l’identificazione di lega e comunità bracciantile. Le realtà del socialismo ferrarese verranno distrutte dall’avvento del fascismo non solo con la violenza ma anche sfruttando abilmente il vuoto che correva tra città e campagna, tra riformismo e massimalismo. Nel processo di “svuotamento “fu decisivo il ruolo di Italo Balbo che, pur adeguando il fascismo all’egemonia agraria, appoggiava le aspirazioni alla terra di contadini e coloni spaventati dalle baronie rosse del 1919 e del 1920. [18]
La diversità degli obiettivi delle agitazioni, delle lotte, dalla matrice ideologica apparve evidente ad un cronista dell’epoca:
Lo sciopero ha avuto forme di violenza estreme, disgustose: si è avuta una “jacquerie” con le sue esplosioni brutali, selvagge, non un grande movimento di socialismo agrario. E non possono stupire queste enormi convulsioni di masse quando si pensi che i contadini del Padovano – e si potrebbe dire lo stesso per altre parti del Veneto – non hanno mai avuto, ieri dai preti che li comandavano, oggi dai socialisti, dove li sostituiscono, nemmeno i primi rudimenti di educazione civile e politica. Queste masse sono state irreggimentate e scatenate alla lotta prima ancora che acquistassero una sia pur primordiale coscienza di classe. […] Il movimento ha avuto la sua determinante soltanto in questioni agrario-economiche e gli obiettivi sono stati economici. Del resto, la mentalità politica dei contadini del Padovano è troppo arretrata perché essi ascoltino altre voci all’infuori di quelle che li richiamano direttamente alla tutela dei loro interessi materiali. [19]
In Toscana, come nella campagna emiliana o umbra, le proteste e gli scioperi sono continui e ottengono risultati: nel luglio del 1920, in Toscana, l’associazione agraria è costretta ad accettare tutte le rivendicazioni dei braccianti. Nonostante i successi le proteste non si placano. Il 21 luglio a Magliano Sabina la lega socialista dei contadini, collegata con la locale sezione dell’Opera nazionale combattenti e con l’intervento di Luigi Spada della Camera del Lavoro di Roma, compila l’elenco delle terre incolte di proprietà ecclesiastica, di enti pubblici e di singoli proprietari, che avrebbero dovuto essere cedute entro il mese di agosto, in caso contrario la lega ne avrebbe ordinato l’invasione:
I proprietari protestarono vivacemente contro l’assenteismo delle forze dell’ordine e vistisi non sufficientemente protetti furono costretti a cercare una via di conciliazione. Le trattative portarono verso la fine di settembre alla stipula di un accordo che – sulla base del decreto Visocchi – autorizzava l’occupazione delle terre invase (circa 90 ettari a Magliano Sabina) e prevedeva la loro cessione in affittanza collettiva alle organizzazioni contadine per la durata di quattro anni. [20]
L’asprezza dello scontro è brutale e si gioca da un lato sulla distruzione dei raccolti e l’incuria verso il bestiame e dall’altro con l’attacco fisico al proprietario terriero, alle forze dell’ordine ovvero verso tutti i rappresentati delle istituzioni e gli attacchi sono, nella maggior parte dei casi, armati come riferisce questo articolo del maggio 1920:
Gli abitanti di Mascioni che mal tolleravano le occupazioni delle terre necessarie per lo sfruttamento della vasta torbiera di Campotosto e per la costruzione della linea ferroviaria Aquila-Capitignano, da qualche tempo rivolgevano le loro ire contro il personale delle due società.[…] Questa mattina poi, gli abitanti di Mascioni, riuniti al suono delle campane, hanno assalito il nuovo cantiere, armati di fucile. Accorsi i carabinieri, i dimostranti hanno iniziato una fitta sassaiuola. Improvvisamente dalla folla sono partiti colpi di rivoltella che hanno ferito gravemente alla nuca un carabiniere. [21]
La riflessione sulla violenza, già anticipata, torna qui in modo prepotente: da dove viene questa violenza, questo uso sistematico delle armi che porta la conflittualità sociale e politica inesorabilmente verso il Ventennio fascista? Possiamo ritrovare la risposta nelle parole di un capolega socialista:
“La guerra […] ci ha levato ogni paura: come non avremmo più paura a fare le schioppettate, così non abbiamo paura di perdere il podere: e i padroni, che tante volte si sono approfittati di noi e della nostra ignoranza, devono ora fare i conti con noi”. [22]
È in questo contesto, il mondo delle campagne, che si assiste al vero rovesciamento dell’ordine costituito, qui più che nelle fabbriche:
[…] sono movimenti sociali che allarmano i ceti economici dominanti, soprattutto gli agrari, abituati a vedere i propri mezzadri e braccianti togliersi il cappello al loro passaggio e ora invece costretti ad assistere ad occupazioni delle terre che violano addirittura i recinti delle abitazioni padronali: sono avvenimenti inaccettabili che rovesciano ogni principio di autorità. [23]
Le lotte contadine continuano per tutta l’estate arrivando ad accordi che prevedono il rinnovo del patto colonico e che in parte riequilibrano i rapporti contrattuali riducendo i privilegi degli agrari. Le concessioni – come già nelle occupazioni delle fabbriche (che termineranno circa un mese dopo) – anche in questo caso inducono in uno stato di sospensione le agitazioni: non si arriva al sovvertimento dell’ordine costituito ma ci si ferma ad un passo. Le concessioni a cui gli agrari sono costretti e la violenza con la quale furono ottenute l’innestano altra violenza. Le forze padronali, consapevoli di non poter contare sullo Stato, debole se non assente, intraprendono altre vie, e queste portano verso la soluzione immediata più plausibile: l’alleanza con i Fasci di combattimento.
[14] Giuseppe Milazzo, Il sangue e gli ideali. Cronaca degli eventi che infiammarono Savona tra il 1919 ed il 1924. Parte prima: Il Biennio Rosso , Impressioni Grafiche, Acqui Terme 2020, pag. 135 e segg.
[15] Stefano Musso, L’occupazione delle fabbriche , in “Gli Italiani in guerra” a cura di Mario Isnenghi e Giulia Albanese, Utet, Torino 2008, Vol. IV, t. 1, pag. 295.
[16] Ivi, pag. 295.
[17] Cfr. Valerio Torre, La “grande paura”: il biennio rosso, dal blog “Assalto al cielo” . La citazione è tratta da Ezio Riboldi, Vicende socialiste: trent’anni di storia italiana nei ricordi di un deputato massimalista, Azione Comune, Milano 1964.
[18] Tosti Sparta, Introduzione, “Il filo rosso del socialismo fra il territorio emiliano-ferrarese e quello lepino-pontino”, a cura di Cristina Rossetti e Sparta Tosti, in “Carte Pontine”, n. 8, Archivio di Stato di Latina, 2015, p. 21.
[19] La jacquerie del Basso padovano, in “Corriera della sera”, Domenica 9 maggio 1920, pag. 2.
[20] Francesco Bogliari, Il biennio rosso nelle campagne umbre (1919-1920), in “Italia contemporanea”, n. 123, aprile-giugno 1976, fasc. 2, p. 11, disponibile qui.
[21] Ibidem.
[22] Lorenzo Bertuccelli, Sindacalisti e capilega nei contromondi rossi, in “Gli Italiani in guerra”, a cura di Mario Isnenghi e Giulia Albanese, Utet, Torino 2008, Vol. IV, t.1, p. 133.
[23] Ibidem.
Secondo intermezzo didattico. Materiali per l’approfondimento
Di seguito elenchiamo alcuni documenti utili allo svolgimento di percorsi didattici sul biennio rosso nelle campagne e nelle città italiane. I materiali sono costituiti da contributi video e documenti storiografici:
- Breve intervento sul Biennio rosso nelle campagne bolognesi di Luciano Casali (docente di storia contemporanea all’Università di Bologna).
- Il servizio di Massimo Mazzolini sulle “giornate rosse” del 2 maggio 1920, a Viareggio, quando si rischiò lo scoppio di una rivoluzione durante il derby calcistico Viareggio – Lucchese (vedi La libera Repubblica di Viareggio, un caso particolare).
- Le suggestive pagine sui moti di piazza del 7 luglio 1917 a Savona riportate dal saggio di Giuseppe Milazzo Il sangue e gli ideali. Cronaca degli eventi che infiammarono Savona tra il 1919 ed il 1924. Parte prima: Il Biennio Rosso, Editrice Impressioni Grafiche, Acqui Terme 2020 (Giuseppe Milazzo, Il sangue e gli ideali, pag.135-137.)
- Altri riferimenti al biennio rosso nelle campagne si possono trovare in Francesco Bogliari, Il biennio rosso nelle campagne umbre (1919-1920) consultabile qui.
Letteratura e dintorni: guerra e fabbrica
Il percorso letterario proposto segue, o almeno si propone di farlo, le tematiche già esaminate dal punto di vista storico. Si muove tra poesie e prosa e cerca di farlo con autori che difficilmente vengono chiamati in causa come testimoni di quel tempo carico di contraddizioni e spinte violente che è stato il primo dopoguerra in Italia. L’analisi dei testi letterari è fondamentale per entrare in contatto con lo spirito di un’epoca. Ci permette infatti di cogliere i riflessi che i mutamenti del contesto storico producono sugli individui e, se questi sono artisti o letterati, sui registri stilistici ch’essi usano, sui loro linguaggi e sui contenuti. Non è un caso che la lingua poetica si trasformi in senso espressionistico, come in Rebora, o nel linguaggio essenziale e scarnificato di Sbarbaro. Allo stesso modo, nel testo in prosa si affacciano nuove tematiche, come il mondo della fabbrica, che troverà la sua consacrazione nel secondo dopoguerra con autori come Volponi, Ottieri e Bianciardi; si rivelano inoltre diversi approcci che, distaccandosi dai modi veristi, si connotano in senso espressionista. E il punto prospettico, smarrita l’istanza positiva, è quello parziale del protagonista, che non riesce a rimandarci ad una comprensione della realtà oggettiva e razionale.
Guerra
La Prima guerra mondiale, come ovvio, influenza fortemente anche la letteratura. Un’intera generazione di poeti e letterati partecipa alla Grande Guerra (Ungaretti, Gadda, Rebora o Jahier, per citarne alcuni). E tanti ne rimangono irrimediabilmente segnati: le loro esperienze sono un vivido esempio del dramma vissuto. Il passo da compiere è quello che porta ad un superamento del mero dato fisico e spaziale: i traumi del conflitto non sono evidenti solo nelle poesie “di guerra”, dove il dato è evidente (si pensi ad Ungaretti), ma anche nel linguaggio poetico di questa generazione di poeti. La cifra stilistica diventa così il segno di un rapporto irrecuperabile con il reale. Al centro della nostra analisi possiamo mettere proprio quella distorsione sensoriale di cui abbiamo parlato in apertura del nostro percorso.
Il caso di Clemente Rebora è paradigmatico. Come scrive lo storico della letteratura Elio Gioanola:
Allo scoppio della prima guerra mondiale, alla quale partecipò come tutti i letterati della sua generazione, venne mandato sul fronte del Carso: pervaso da un profondo senso di sacrificio Rebora non temeva di offrire la propria vita, ma poi il suo sistema nervoso non riuscì più a sopportare gli orrori del conflitto, specialmente dopo che una granata, scoppiata vicinissima a lui, gli provocò quella che può essere definita una nevrosi da trauma. [24]
Tutto, tragicamente, torna. Il trauma subito durante il conflitto diventa stile: Rebora è un espressionista, il suo linguaggio poetico è deformato, le inquietudini esistenziali diventano disarmonie liriche, testimonianza di un disagio nei confronti del reale, che non può trovare consolazione nel tentativo di ricerca del senso per mezzo della ragione, ma spinge il poeta verso l’irrazionale, verso l’Assoluto (Rebora nel 1936 ricevette gli ordini sacerdotali). Il testo che può aiutarci a cogliere la poetica di Rebora è “O pioggia dei cieli distrutti”, in cui un tema ricorrente nella tradizione poetica, la pioggia, si carica dell’ansia profonda di distacco da un mondo oramai distrutto e dal suo stesso superamento: “La vita che qui di respiro in respiro/ è con noi belva in una gabbia chiusa/ Un’eletta dottrina,/un’immortale bellezza/uscirà dalla nostra rovina”.
A conferma del mutato rapporto dell’uomo con il mondo è la testimonianza letteraria di Camillo Sbarbaro. Egli prende parte alla guerra prima come volontario nella Croce Rossa poi, dal 1917, come soldato al fronte, in prima linea:
– Sputerai sangue anche tu – era stato all’arrivo il benvenuto degli anziani. Destati, si scivolava come per sartie dalle cuccette sovrapposte, si usciva nel gelo della notte friulana, rigata da razzi, pausata in lontananza dal tapùn del cecchino. (Irraggiungibili a un passo le latrine – la corvè dell’indomani – allagate da dissenteria; ma a udire “mucosità» il tenentino rimandava in riga per usurpazione di parola di sua spettanza). [25]
In Sbarbaro è evidentissima l’impossibilità di vivere la modernità, che irrompe nella vita delle masse e le ingloba nelle sue due principali espressioni: la fabbrica e poi la guerra. Binomio perfettamente sintetizzato dalle parole che già nel 1913 Giovanni Papini scriveva nella rivista fiorentina “Lacerba”:
Tutta la vita del nostro tempo è un’organizzazione di massacri necessari, visibili e invisibili. […] Carne da cannone e carne da macchina. […] Chi si ribellasse in nome della vita sarebbe spiaccicato in nome della vita stessa. [26]
Così la fabbrica e la guerra hanno per Sbarbaro lo stesso sapore: “[…] la prima linea mi ha respinto […] Così marcisco nelle retrovie […] Si sta qui come sotto ogni altro cielo: alti e bassi, oasi egualmente benedette in Sahara di automatismo e di imbecillità” [27]. Il vivere civile e il vivere militare, sotto il segno della modernità, si equivalgono e portano ad un progressivo inaridimento dell’essere umano, ad una progressiva e radicale estraneità nei confronti della realtà: il poeta si fa specchio impersonale e deforme del mondo. Anche Sbarbaro come Ungaretti trova, al fronte come in città, rifugio nella Natura. Una Natura che non rinvia a nessun soprannaturale, ma è come una via per ritrovare l’innocenza infantile: “Rinfanciullito, mi chino sull’argine. Per gioco, tiro un sasso nell’acqua. La bestia ammutolisce e s’immergerebbe, ma per un po’ il gozzo enfiato dal canto la trattiene a galla, bersaglio del passante”. Come Ungaretti si immerge nei suoi fiumi, Sbarbaro, al fronte, s’immerge nella Natura, estremo gesto di negazione del reale: “Più tardi i colori si fondono. Il cielo si sbava di viola con presentimenti d’oro. Armonie nascono che l’occhio coglie con la premura delle gioie e intrattenibili. Delicatezze e iridescenze da bolla di sapone. A momenti si vive in un vetro soffiato” [28]. Disposizione d’animo che viene ribadita in diverse lettere spedite dal fronte: “Uscito dalla trincea, mi ritrovo ora, ripulito e rinovellato, in un paesaggio insolito: aperto che spalanca il cuore: vallette e monticelli; e non un abete, ciò che vuol dire un po’ di sole per asciugarsi le ossa. Di alberi, anzi di alberelli, solo sulla collinetta di fronte tre filari; così ben allineati […] e che silenzio! Da chiedersi se la guerra c’è […]. Purtroppo il paradiso non durerà che una settimana; la successiva in trincea, poi 40 giorni e più (mi pare) nelle retrovie” [29].
La poetica del “frammento”, la distruzione del discorso poetico, restituisce con precisione gli effetti del mutamento profondo di questo inizio secolo: il disaccordo inconciliabile tra il moderno (di cui la guerra, la fabbrica, la città sono espressioni) e l’uomo. Una contrapposizione non facilmente ricomponibile e destinata a segnare tutto il Novecento (non a caso il romanzo simbolo di questa incapacità alla vita, La coscienza di Zeno, verrà pubblicato proprio nel 1923). Esemplificativa di questa condizione è la lirica di Sbarbaro, dagli evidenti echi montaliani, Talora nell’arsura della vita.
Fabbrica
L’elemento “fabbrica”, abbiamo notato, è l’altra prepotente icona della modernità, l’industria è il volano della guerra e nel Biennio rosso è il campo di battaglia dove si scontrano gli interessi di lavoratori e padroni. La fabbrica e gli operai entrano nel mondo letterario sul già finire dell’Ottocento con un autore tutto sommato inaspettato: Edmondo De Amicis. Questi, nel 1891, scrive, per poi non pubblicare, Primo Maggio, un’opera di certo “politica” che fin dall’incipit pone in risalto i contrasti e le paure che ritroveremo nel biennio rosso:
Vestito che fu, uscì dalla camera, e udendo nella cucina una voce d’uomo che discorreva con le donne di servizio, si fermò ad origliare all’uscio socchiuso. Era il garzone panattiere, a cui Rosa, la cameriera, saldava il conto del mese, contando delle lire sulla tavola. Il giovane diceva: — Dell’argento?…
Ah! sta bene, perché i biglietti… Presto ha da accadere qualche cosa di grosso, per cui i biglietti dei signori non varranno più niente. – La cameriera gli diede dello spaccone. Ma Antonia, la vecchia cuoca, biascicando le parole con voce acre, confermò la profezia. Fin dall’alba giravano per Torino pattuglie di fanteria e di cavalleria. Essa aveva inteso dire nelle botteghe che nella giornata del 1° Maggio sarebbero venuti in città i contadini, con le falci e i tridenti, ad aiutare gli operai, e assicurava che molte famiglie avevan fatto provvista di pane e di carne per tre o quattro giorni, in previsione d’una rivoluzione.
Il signor Bianchini tirò via, seccato. Erano due o tre giorni che quella vecchia ciaccolona riportava in casa tutte le più sinistre e strampalate pastocchie che sentiva dire in mercato, con l’evidente proposito di destare inquietudine nei padroni… [30]
Si tratta di un testo che, se non incide fortemente nella storia della letteratura, rimanda però in modo chiaro ad una delle problematiche di fondo con la quale intellettuali e scrittori iniziano a fare i conti. A questo proposito, è interessante notare il passaggio di De Amicis da letterato del Risorgimento a uomo di sinistra: passaggio che sta a testimoniare le urgenze politiche e sociali che nascono sul finire dell’Ottocento e, via via più incalzanti, non trovano risposte adeguate nei decenni successivi. Il motivo della conversione verso le idee socialiste non è semplice: De Amicis sperimenta una conversione lenta, fatta di studi approfonditi. Ma c’è anche una motivazione profonda che lo spinge verso il socialismo: “Quello che mi importa è di essere profondamente, immutabilmente persuaso che nella tendenza al socialismo è il progresso e la giustizia; che esso rappresenta, se non altro, una potentissima reazione, senza la quale l’individualismo dominante, non frenato, ci condurrebbe a degli orrori” [31]].
Queste convinzioni sono espresse da De Amicis in una delle diverse lettere indirizzate a Francesco Nitti, scritte in merito alla gestazione del romanzo, un confronto continuo con l’uomo politico. che alla fine non risolverà i dubbi di De Amicis che deciderà di non pubblicare il romanzo reputandolo un fallimento.
Se i dubbi e le incertezze di De Amicis si collocano cronologicamente prima del Biennio Rosso, centrato su quel periodo è il romanzo Tre Operai di Carlo Bernari (pubblicato nel 1934). L’intento dichiarato dell’autore si riallaccia a quanto detto in apertura: la fabbrica come simbolo della modernità e al contempo trauma che agisce, come poi farà la guerra, sull’identità degli individui:
Bernari si sforza di rappresentare una percezione soggettiva della realtà, di vedere veristicamente con la mente di Teodoro, ma anche di udire e sentire con l’olfatto, sfruttando un immaginario sensoriale meno utilizzato in narrativa, fatto di odori acri e rumori o rombi meccanici.
D’altronde Tre operai attraversa il mezzogiorno senza registrare differenze tra Napoli, Taranto, Crotone, Reggio Calabria, senza incontrare o ricercare delle identità locali. E questa è una scelta precisa. Il romanzo delle fabbriche, degli operai e disoccupati del Sud in via di industrializzazione ambisce a leggere una nuova realtà sociale, da osservare nei suoi caratteri astratti e collettivi, più in sintonia con la trasformazione globale e pervasiva che l’industria ingenera ovunque, agendo sulle coscienze e sulle esistenze. [32]
La conclusione del romanzo è, come prevedibile, amara e consapevole della sconfitta e la riflessione su questo smacco è affidata ad uno dei tre protagonisti, Teodoro: “Ma ho un presentimento: che non combineremo niente”, e altrettanto chiara è la conseguenza di quella sconfitta: il Ventennio.
Il romanzo di Bernari non è un romanzo verista, né un romanzo storico; si potrebbe definire un romanzo di denuncia della degradazione proletaria: la Napoli che ci racconta è deformata e distante dalle solite descrizioni libresche, i protagonisti di si dibattono in tensioni ideali impossibili da raggiungere. Le speranze e i sogni di Teodoro richiamano la denuncia delle incertezze e degli errori del proletariato, rivelano la presenza di un’angoscia originaria e di uno smarrimento esistenziale che tenta di esorcizzarsi nell’adesione precostituita ed ideologica ad un progetto di mutamento sociale. Lo smarrimento del protagonista appare evidente nell’estratto che proponiamo qui [33].
[24] Poesia italiana del Novecento, a cura di Elio Gioanola, Librex, Milano 1986.
[25] Camillo Sbarbaro, Fuochi fatui (1956), in “L’Opera in versi e in prosa”, a cura di Gina Lagorio e Vanni Scheiwiller, Scheiwiller-Garzanti, Milano 1985, p. 431.
[26] Papini Giovanni, La vita non è sacra, in “Lacerba”, n. 20, 15 ottobre 1913
[27] Camillo Sbarbaro, Cartoline in franchigia, in “L’Opera in versi e in prosa”, a cura di Gina Lagorio e Vanni Scheiwiller, Scheiwiller-Garzanti, Milano 1985, p. 4565. Cfr. anche Antonello Perli, Sbarbaro frammentista della Grande Guerra, in “Sinestesieonline”, n. 11. Marzo 2015, disponibile qui.
[28]Ibidem.
[29]Ibidem.
[30] E. De Amicis, Primo Maggio, Parte Prima, I, dall’edizione a cura di Giorgio Bertone e Pino Boero, Garzanti, Milano 1980, p. 5, disponibile qui.
[31] Giancarlo Bergami, Storia di Primo maggio, nelle Lettere Inedite di De Amicis a Nitti). Belfagor, vol. 36, n. 3, 31 maggio 1981, 328-34.
[32] Giuseppe Lo Castro, “Tre operai” e “L’ombra del suicidio”. Realtà operaia e sovrarealtà industriale, in OBLIO, II, n 8 (2012), pp. 71-72 (cfr. Tre operai).
[33] Elio Gioanola, Antologia della letteratura italiana, Librex, Milano 1986, p. 942.
Le origini del fascismo nella letteratura del Terzo Millennio
La complessità della nascita del fascismo, la sua crescita e il suo consolidamento possono essere oggetto di analisi sia dal punto di vista storico che letterario. Da dove arrivano e chi sono i fascisti?
A questo proposito può rivelarsi assai efficace un caso letterario recentissimo ed interessante, M. Il figlio del secolo di Antonio Scurati [34].
Le prime pagine del libro sono utili per chiarire la genesi del movimento fascista e possono rappresentare la chiosa al nostro percorso didattico in quanto curiosamente vicine ad alcune nostre considerazioni iniziali sul reducismo, sull’eredità della guerra e su come questa abbia pesato sullo svolgersi dei fatti del biennio rosso. Particolarmente significative sono le prime pagine del romanzo che ricostruiscono la prima adunata dei Fasci di combattimento, a Milano, il 23 marzo 1919. La scrittura è densa. Merita attenzione perché è pregna di riferimenti che delineano l’irruzione di un epocale stravolgimento nella vita politica e sociale italiana:
Affacciamo sulla piazza del Santo Sepolcro. Cento persone scarse, tutti uomini che non contano niente. Siamo pochi e siamo morti.
Aspettano che io parli ma io non ho nulla da dire.
La scena è vuota, alluvionata da undici milioni di cadaveri, una marea di corpi – ridotti a poltiglia, liquefatti – montata dalle trincee del Carso, dell’Ortigara, dell’Isonzo. I nostri eroi sono già stati uccisi o lo saranno. Li amiamo fino all’ultimo, senza distinzioni. Sediamo sul mucchio sacro dei morti. […] La previsione non cambia, farà brutto ancora. All’ordine del giorno è ancora la guerra. Il mondo va verso due grandi partiti: quelli che ci sono stati e quelli che non ci sono stati.
Lo vedo, tutto questo lo vedo con chiarezza in questa platea di deliranti e derelitti, eppure non ho niente da dire. Siamo un popolo di reduci, un’umanità di superstiti, di avanzi. Nelle notti di sterminio, acquattati nei crateri, una sensazione simile all’estasi degli epilettici ci ha scossi. Parliamo brevemente, laconici, assertivi, a raffiche. Mitragliamo le idee che non abbiamo, poi subito ricadiamo nel mutismo. Siamo come fantasmi d’insepolti che hanno lasciato la parola tra la gente delle retrovie.
[…] Perché dovrei parlare a questi uomini? A causa loro i fatti hanno superato ogni teoria. È gente che prende la vita d’assalto come un commando. Ho davanti a me solo la trincea, la schiuma dei giorni, l’area dei combattenti, l’arena dei folli, il solco dei campi arati a colpi di cannone, i facinorosi, gli spostati, i delinquenti, i genialoidi, gli oziosi, i playboy piccolo-borghesi, gli schizofrenici, i trascurati, i dispersi, gli irregolari […] quelli che la normalità del rientro ha riscoperto violenti, i fanatici […].
Lo so, li vedo qui davanti a me, li conosco a memoria: sono gli uomini della guerra. Della guerra o del suo mito. […] Le macerie si cumulano, i rottami si richiamano a vicenda. Io sono l’uomo del “dopo”. E ci tengo. È con questo materiale scadente – con questa umanità di risulta – che si fa la storia […].
Inizia l’epoca della politica delle masse e noi, qua dentro, siamo in meno di cento.
Ma anche questo non importa. Nessuno crede più alla vittoria. È già venuta e sapeva di fango. Questo nostro entusiasmo – giovinezza, giovinezza! – è una forma suicida di disperazione. Siamo con i morti, rispondono loro al nostro appello in questa sala semivuota, a milioni.
Giù in strada le grida dei garzoni invocano la rivoluzione. Noi ridiamo. La rivoluzione l’abbiamo già fatta. Spingendo a calci questo Paese in guerra, il 10 maggio millenovecentoquindici. Ora tutti ci dicono che la guerra è finita. Ma noi ridiamo ancora. La guerra siamo noi. Il futuro ci appartiene. È inutile, non c’è niente da fare, io sono come le bestie: sento il tempo che viene”. [35]
[34] Antonio Scurati, M. Il figlio del secolo, Bompiani, Milano 2018.
[35] Ivi, pp. 9 – 12. A questo link (qui) si può vedere lo spettacolo teatrale, tratto dal romanzo di Scurati ed interpretato da Luca Zingaretti, che si apre con il brano citato.
Canzoni e protesta
Le canzoni popolari sono sempre state collegate al lavoro. Lo accompagnavano per alleviarne la fatica: si cantava vendemmiando, zappando, pascolando. Questa tradizione risulta più evidente e marcata in America: i canti degli schiavi neri nelle piantagioni daranno il via a un filone musicale prolifico per la musica d’oltreoceano: si pensi ai gospel, al blues e a tutte le loro derivazioni. La canzone accompagna la vita quotidiana dell’uomo e la racconta. La canzone popolare, per questa sua caratteristica, si pone al centro del nostro interesse come fonte storica di indubbio valore ma, come tutte le fonti, deve essere trattata con le dovute cautele.
Le canzoni sono fonti complesse in quanto in esse convergono svariati materiali che si prestano a diversi tipi di analisi: letteraria, musicale e sociologica. Da punto di vista storico è condivisibile la posizione di Giovanni De Luna, per il quale le canzoni diventano “documenti preziosi per leggere nelle profondità dei gusti e delle emozioni della società di massa”, a condizione però di non considerarle “nei loro aspetti artistici, nei risvolti musicali delle loro melodie e in quelli letterari dei loro testi, ma di declinare il loro rapporto con la storia in almeno tre direzioni diverse” ossia come fonti di conoscenza storica, forme di narrazione di un’epoca e agenti dei processi storici [36].
Le canzoni sono prodotti della società, elementi che si collocano all’interno di un mosaico complesso e mai unidirezionale, e fanno parte della sua stessa identità. È qui impossibile ripercorrere l’intera storia della canzone italiana; tuttavia è doveroso notare come la musica popolare italiana evolva nel corso dell’Ottocento e si caratterizzi per uno sviluppo considerevole nel passaggio fra i due secoli.
In origine la canzone popolare è fortemente legata al contesto regionale. Un esempio è la famosissima Maremma amara, composta durante i primi anni dell’Ottocento. Il testo, scritto prima in dialetto e successivamente in italiano, testimonia il processo di bonifica della Maremma toscana: è questo un canto di sofferenza, di lavoro e di morte. Sempre legata al lavoro di bonifica, ma questa volta in Romagna, è Gli scariolanti, collocabile sul finire dell’Ottocento.
Come il lavoro, anche l’emigrazione trova spazio nelle canzoni: famosissime sono Mamma mia dammi cento lire, composta proprio nel 1920, e Trenta giorni di nave a vapore che racconta un altro processo storico doloroso per la popolazione: l’emigrazione verso le Americhe. Sicuramente è interessante notare come le canzoni citate siano il frutto di continui rimaneggiamenti popolari: non c’è un autore singolo, non c’è il sentire di un solo individuo ma l’impegno anche creativo di un gruppo, di una collettività; per questo i canti popolari sono significativi e utili anche come fonti storiche.
Strettamente legata al nostro percorso e alla nascita delle prime leghe contadine nella Bassa Padana è Se ben che siamo donne (La lega), ascrivibile ai primi del Novecento, e le coeve Se otto ore vi sembran poche e Sciur padrun da li beli braghi bianchi.
Sono solo alcuni esempi, ma indicativi: i canti profilano narrazioni che si tramandano per generazioni diventando identitari: racconto lo sfruttamento, le rivendicazioni, le sofferenze di una parte delle società, la classe lavoratrice. Per citare un caso tra i tanti: Maremma amara verrà ampiamente ripresa da diversi artisti negli anni Sessanta, segno della continuità storica di problematiche legate al tumultuoso sviluppo economico e sociale e delle sue rivendicazioni politiche che, dai primi anni del secolo, giunge sino all’epoca del boom economico. Questa continuità è ben testimoniata dalla canzone La locomotiva, composta da Francesco Guccini nel 1972 per ricordare il gesto di protesta risalente alla fine del XIX secolo di un macchinista anarchico, o dal rifacimento di Addio Lugano bella, scritta dall’anarchico Pietro Gori nel 1895, da parte della coppia Gaber – Jannacci nel 1964. Altro esempio è l’Internazionale. Composta dal poeta rivoluzionario Eugène Pottier nel 1871 per celebrare la Comune parigina, viene musicata solo diversi anni dopo (1898) ma, da quel momento, in brevissimo tempo diventa un inno conosciuto in tutto il mondo che attraverserà il Novecento e le sue lotte politiche. Il testo verrà adattato alle diverse realtà nazionali: la versione italiana è del 1901 ad opera Ettore Bergeret (testo e musica lo trovate qui). È interessante notare come l’irruzione delle masse nella storia sia un fenomeno che includa anche la musica classica: melodie, per così dire, “sacre” vengono estrapolate e spogliate della loro stessa sacralità per essere modificate ed adattate. È il caso dell’Inno del Primo Maggio: l’anarchico Pietro Gori adatta all’aria del Va pensiero di Verdi innestandolo con parole di lotta e riscatto e creando un meraviglioso corto circuito sonoro destinato ad essere conosciuto in tutto il mondo [37].
Una continuità. Le canzoni accompagnano precisi momenti storici: questo ci aiuta a contestualizzare, per esempio, il fenomeno dell’antagonismo di classe che si spezza, quasi senza soluzione di continuità, con gli anni Novanta, lasciando spazio a nuovi scenari slegati dal senso di appartenenza ad una specifica classe sociale, al riconoscersi in una ideologia politica definita.
La tragedia della Grande Guerra trasforma la canzone, la sottrae ai regionalismi e la consegna alla lingua italiana: le canzoni, scritte in italiano perché devono essere comprese e cantate da tutti, diventano una delle grandi narrazioni del conflitto. Episodi e vicende singolari assurgono ad emblema della sofferenza collettiva. Il testamento del capitano è forse l’esempio più chiaro e drammatico della percezione disgregante del conflitto: “Cosa comanda siòr Capitano/Che noi adesso semo arriva’ /(Ed io comando che il mio corpo/In cinque pezzi sia taglià!”. Il corpo smembrato del capitano diventa metafora, sicuramente inconscia, di una condizione condivisa. Altre canzoni vanno ricordate in questo contesto, alcune non sempre drammatiche, come O surdato ‘nnamurato (1915), altre epiche come La Leggenda del Piave (1918). Tutti motivi che diventano popolarissimi e non vengono dimenticati con la fine del conflitto.
Anche il biennio rosso ha le sue canzoni. Sono tutte fortemente politicizzate, tanto che alcune sono anche censurate e finiscono negli atti dei processi contro gli antifascisti del Tribunale speciale fascista come Figli di nessuno. Le canzoni diventano un vero strumento di lotta: veicolano ideologie e anche strategie operative come: “Ostruzionismo e sabotaggio/sono le armi di chi ha più coraggio/Per le riparazioni faremo/l’impossibile/ per impiegare più tempo possibile /è tempo del padron”. (Ballata dell’ostruzionismo).
In relazione a quanto detto sul fenomeno dell’arditismo, decisamente interessante è notare come la canzone Giovinezza (inno degli Arditi già nel 1917) conosca successivamente due versioni. La prima è quella degli Arditi del popolo (qui il testo), che nel 1921 animava la loro lotta con queste parole: “In Italia non vogliamo/delinquenti ed assassini/non seguaci di Nerone/del nefando Mussolini”. La seconda è la versione dei fasci di combattimento che, nel 1925, rivedendone e correggendone il testo, l’hanno trasformata nell’inno ufficiale del Partito nazionale fascista (qui il testo).
[36] Cfr. G. De Luna, Quando la musica leggera diventa storia, citato in Aldo Gianluigi Salassa, Fare la storia del secondo Novecento con le canzoni italiane, in novecento.org, n. 14, Agosto 2020 (disponibile qui).
[37] Cfr. Inno del Primo maggio di Pietro Gori disponibile qui.
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- Torre Valerio, La “grande paura”: il biennio rosso (disponibile qui)
- Tosti Sparta, Introduzione, “Il filo rosso del socialismo fra il territorio emiliano-ferrarese e quello lepino-pontino”, a cura di Cristina Rossetti e Sparta Tosti, in “Carte Pontine”, n. 8, Archivio di Stato di Latina, 2015, pp.19-25
I restanti materiali citati nel testo e utili allo svolgimento del percorso didattico sono consultabili e scaricabili qui. Inoltre, appositi rimandi interni al percorso sul Biennio rosso consentono anche la lettura e l’ascolto dei testi delle canzoni.
NOTA BENE: Le immagini relative a Savona sono tratte dal filmato originale della Manifestazione del 1ºMaggio 1920 che l’Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico ha gentilmente messo a disposizione su YouTube (clicca qui per vedere il filmato).